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lunes, 28 de febrero de 2011

Salvatore Giuliano - Francesco Rosi (1962)



TÍTULO Salvatore Giuliano
AÑO 1962 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 124 min.
DIRECTOR Francesco Rosi
GUIÓN Francesco Rosi, Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas
MÚSICA Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA Gianni di Venanzo
REPARTO Frank Wolff, Salvo Randone, Federico Zardi, Pietro Cammarata, Fernando Cicero, Giuseppe Teti
PRODUCTORA Lux-Vides
GÉNERO Drama

SINOPSIS Biografía de Salvatore Giuliano, un mítico bandido e independentista siciliano. Pero lo que a Rosi le interesa de verdad es centrar la atención sobre el endémico atraso de Sicilia, sobre las relaciones entre mafia, bandolerismo, poder político y poder económico, es decir, sobre las causas de lo que los italianos llaman el "problema meridional". (FILMAFFINITY)

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Se non si può certo affermare, come pure è stato detto, che Salvatore Giuliano è il «più bel film del cinema italiano», è certo legittimo ritenere che la terza opera di Rosi costituisca il frutto più coraggioso e la testimonianza più civilmente appassionata della "ripresa" di questi anni. Se la passione del neorealismo fu la rabbia e la foga della sua volontà di scoperta, l'aggressività del suo impegno conoscitivo, essa si ritrova in pieno nel film di Rosi in cui si avverte d'altro canto la nervatura critica di certe tendenze "retrospettive" della produzione italiana di questi anni. L'emozione profonda che proviamo dinanzi a talune sequenze del film conferma la sensazione esaltante che Rosi ricorda sovente di aver provato, quella cioè di fare un cinema libero dagli intoppi e dalle strettoie del mestiere e della convenzione, in cui il momento della elaborazione creativa coincide con quello della progressiva scoperta della verità di una condizione umana, di una realtà contraddittoria e drammatica, di una strozzatura storica tuttora irrisolta. Io penso che Rosi, in questo rifarsi a certe ragioni del neorealismo risentite alla luce della più accidentata e tormentosa problematica odierna, abbia ritrovato l'entusiasmo di chi fa il cinema sapendo di compiere un atto di testimonianza e di comunicazione. Questa emozione civile, che è il segno distintivo del film, il suo impulso necessario, ne costituisce poi anche il limite, rinvenibile per noi nella dispersione dell'asse ideologico e narrativo che dovrebbe sostenerne il discorso.
Il nodo drammatico e politico del film di Rosi è la morte di Giuliano, il cui cadavere crivellato di colpi in fondo al cortile De Maria segna la fine di un incubo e apre con violenza un processo razionale. La smitizzazione di Giuliano è il momento negativo, e più interessante, del film di Rosi: Giuliano vivo è un generico, una figura scorciata sullo sfondo del paese, della banda, degli altri; Giuliano morto è un cadavere ingombrante e sgradevole che fa rimbalzare ancora una volta il discorso sugli altri, sull'ambiente e sulle forze che vi agiscono. Giuliano non può essere il protagonista del film perché egli non è stato un protagonista, perché anzi il banditismo meridionale non è stato mai un'esperienza attiva, ma un fenomeno strumentale, una storia di conseguenze e non di cause. A dodici anni di distanza, nel suo tentativo di riconnettere la non storia di Giuliano alla storia delle forze che l'hanno prodotto e di quelle che l'hanno subito, Rosi deve partire necessariamente di lì, dal momento in cui Giuliano cessa ufficialmente di essere un personaggio e diventa un problema.
La memoria del regista non segue pertanto una linea cronologicamente fedele e coerente, muove dai problemi irrisolti e dagli interrogativi aperti del presente per riportare alla luce frammenti e brani di verità del passato in una successione incalzante e tumultuosa, con tutta la disgregazione di una cronaca per molti versi indecifrabile, una cronaca che non è diventata storia. Nella sequenza del processo di Viterbo e nel volto inquieto e deluso del giudice magistralmente evocato da Randone c'è il segno disperante di un'ansia di chiarificazione e della sua impotenza, delle innumerevoli difficoltà che si oppongono allo sforzo ordinatore della ragione e alla sanzione necessaria del diritto. L'ultima immagine del film, con il cadavere del mafioso abbattuto dalla lupara, vuol dirci che il capitolo delle connivenze e delle responsabilità è tuttora aperto, e il film tende così a prolungarsi oltre i limiti della sua stessa durata, nel vivo della società a cui rivolge il suo discorso.

Non a caso la costruzione stilistica di Salvatore Giuliano può far pensare suggestivamente a quella di un film di montaggio che ci rimandi con l'evidenza delle sue immagini roventi a una cronaca recentissima, che rischia già di essere dimenticata prima di sistemarsi in una chiarificazione storica e di riscattarsi in una lezione politica. Ma qui il regista, che non lavorava sul terreno della organizzazione e interpretazione del materiale delle cineteche e dei cinegiornali, ma a un livello più alto, si trovava di fronte al problema di tentare un discorso critico all'interno di una operazione creativa, al problema insomma di trovare un asse ideologico e stilistico intorno a cui organizzare una materia così esplosiva e bruciante. E qui appunto ci sembra che egli non sia riuscito a rinvenire un principio saldo e coerente di ordinazione della sua "cronaca". Se la "rottura" del tempo e degli schemi narrativi convenzionali, sulla scorta di contaminazioni di moduli documentaristici e di sollecitazioni sperimentali proprie di certo cinema europeo odierno, ha consentito a Rosi di alternare passato e presente senza soluzione di continuità e di darci uno spaccato emozionante e turbinoso di tutte le componenti della realtà siciliana, egli si è poi trovato costretto nelle maglie di quel metodo che a un certo punto cessa di essere, come dovrebbe, uno strumento di indagine e di conoscenza e rischia di risolvere in sé tutto il film.
Così le pagine dedicate alla mafia, al "ruolo" giocato dalle forze di polizia, alla macabra farsa inscenata sul cadavere di Giuliano non risultano sempre persuasive e sono quelle che rivelano i limiti più scoperti di certe tentazioni americanizzanti di Rosi. Né vale invocare l'ambiguità scottante della materia, perché un episodio per certi versi già decantato come quello separatista appare irrisolto come e più degli altri. Se Rosi in sostanza intendeva evocare il volto della Sicilia, e una pagina drammatica e ancora rovente di storia italiana, identificandovi il nodo essenziale di forze dominanti, banditismo e classi subalterne, si deve riconoscere che egli non è riuscito a raggiungere l'equilibrio necessario perché il suo film risulta privo della complessità di concezione e di impianto indispensabile. Non v'è chi non veda a esempio come gli esterni delle imprese di Giuliano, fotografati da quel sensibilissimo e rigoroso operatore che è Gianni Di Venanzo, tradiscano la meccanicità di certe letture e assimilazioni americane del regista. Quando invece Rosi deve aderire immediatamente alla disperazione e alla rivolta delle plebi diseredate e respinte ai margini del paese legale si hanno le sequenze più belle e memorabili del suo film: il dolore e la disperata protesta delle donne nell'aspra e vigorosa sequenza del rastrellamento di Montelepre, il tragico silenzio che si stende a Portella della Ginestra sul campo della strage, la ribellione del pastorello che si trova suo malgrado coinvolto nell'impresa per ritrovarsi incredulo nella gabbia di Viterbo.
Adelio Ferrero
Cinema Nuovo
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

domingo, 27 de febrero de 2011

Mio fratello è figlio unico - Daniele Luchetti (2007)


TÍTULO Mio fratello è figlio unico
AÑO 2007 
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 100 min.
DIRECTOR Daniele Luchetti
GUIÓN Daniele Luchetti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli (Novela: Antonio Pennacchi)
MÚSICA Franco Piersanti
FOTOGRAFÍA Claudio Collepiccolo
REPARTO Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Angela Finocchiaro, Luca Zingaretti, Anna Bonaiuto, Massimo Popolizio, Ascanio Celestini, Diane Fleri, Alba Rohrwacher, Vittorio Emanuele Propizio, Claudio Botosso, Antonino Bruschetta
PRODUCTORA Cattleya / Babe Film
WEB OFICIAL http://www.mihermanoeshijounico.es/
PREMIOS
 2007: 5 Premios Donatello de la Academia Italiana (11 Nominaciones)
GÉNERO Comedia. Drama | Años 60

SINOPSIS Italia, año 1961. El país sufre la agonía de una revolución social y económica. Aunque esta revolución parece no afectar a Accio, un adolescente tan rebelde como problemático que vive a espaldas de todo en la provinciana y deprimente Sabaudia. Sólo por irritar a sus padres, Accio se une a un partido neofascista a la vez que intenta impresionar a Francesca, la novia de su hermano mayor Manrico, principal líder local de la escena política de izquierdas. Las acciones fascistas de Accio avergüenzan a Manrico, y sus padres deciden terciar entre ambos hermanos, quienes dejan de hablarse. La única comunicación entre ellos es a través de Francesca. Accio se enamora perdidamente de Francesca, y las diferencias y conflictos entre ambos hermanos serán un reflejo de un país dividido entre dos formas de entender la vida y la política... (FILMAFFINITY)

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Subtítulos

Emoziona la storia dei due fratelli

Due fratelli nel decennio Sessanta-Settanta. Così diversi fra loro che ciascuno, dell'altro, può dire che è figlio unico: come nella canzone di Rino Gaetano. Vivono a Latina, in una famiglia quasi proletaria, simili soltanto nell'aggressività. Il minore, Accio (che è anche la voce narrante), la risolve, dopo una fugace esperienza di seminario, diventando un picchiatore fascista, sotto la guida di un cattivo maestro. Manrico, il maggiore, che è operaio, è diventato comunista, sempre primo e il più animoso quando si tratta di tenere comizi e proclamare scioperi. Naturalmente le loro divergenze finiscono per metterli con violenza l'uno contro l'altro, anche più tardi perché quando Accio, mutando di campo, diventerà un extraparlamentare, Manrico, andando oltre, sceglierà la lotta armata entrando addirittura in clandestinità. Nonostante una giovane donna gli abbia appena dato un bambino. Un contrasto che Daniele Luchetti, riscrivendolo con Rulli e Petraglia sulle orme di un romanzo non eccelso, ha saputo costruire con forti implicazioni psicologiche, lasciando che quel decennio sociale e politico pur tanto tormentato rimanesse intenzionalmente di sfondo perché, a spiccarvi in mezzo, fossero soprattutto i personaggi che si avvicendano in quella cornice provinciale da cui venivano fatti emergere. Intanto i due fratelli, diversi anche nei loro rapporti con le donne, Accio timidissimo e alle sue prime esperienze sessuali, Manrico non solo sempre pronto a sedurre, ma fiero delle sue doti di seduttore. Entrambi, però, pur tra dispute, ripicche e spesso anche botte, legati da un vincolo che, nel corso di quei dieci anni di scontri, è analizzato in tutte le sue sfaccettature più riposte. Ora con strappi quasi laceranti, ora, al contrario, con note raccolte e sommesse.



Esattamente collegandosi con il disegno -ora corale ora individuale- degli altri caratteri attorno, nel privato e nel pubblico. Con un realismo di cronaca che sa accogliere, ma sempre con modi asciutti, sia la tensione dei sentimenti sia quelle di certe impennate intrise di maliziosa ironia. prima fra tutte, quell'Inno alla Gioia della IX di Beethoven modificato con lodi a Mao, a Lenin e a Marx... Partecipano direttamente di questi felici risultati due interpreti molto attenti nell'aderire con naturalezza alle opposte fisionomie che sono stati chiamati a ricreare. Elio Germano, come Accio, fra abili impacci, improvvise tenerezze, furbe gradassate. Sempre con misura. Riccardo Scamarcio un Manrico impetuoso, deciso, ma anche attraversato da fragilità segrete. Espresse non di rado con finezza. Non dimentico, insieme con loro, Luca Zingaretti, il "cattivo maestro", e Angela Finocchiaro, la madre spesso angustiata dei due.
Gian Luigi Rondi
Da Il Tempo, 20 aprile 2007

sábado, 26 de febrero de 2011

Nostos, Il Ritorno - Franco Piavoli (1990)


TÍTULO Nostos: Il ritorno
AÑO 1990 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 85 min.
DIRECTOR Franco Piavoli
GUIÓN Franco Piavoli
MÚSICA Giuseppe Mazzucca, Luca Tessadrelli
FOTOGRAFÍA Franco Piavoli
REPARTO Bruno Minniti, Alex Carozzo, Giuseppe Marcoli, Paola Agosti, Mirella Fabbri
PRODUCTORA Cooperativa Immaginazione, Zefiro
GÉNERO Drama | Antigua Grecia
PREMIOS Y FESTIVALES
1990.Premio OPL Moti Ibrahim en el Festival de Djerba
1990.Premio AIACE
1989.Presentado fuera de concurso en el Festival de Locarno
1990.Presentado fuera de concurso en el  Mill Valley Film Festival di San Francisco 
1990.Presentado fuera de concurso en en Festival de Moscú

SINOPSIS Tras permanecer largos años fuera de su patria, el héroe siente la imperiosa necesidad de regresar a ella, realizando en su viaje una serie de encuentros a menudo insólitos o incluso misteriosos, superados los cuales acabará por reencontrarse a sí mismo. (FILMAFFINITY)


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Piavoli es la versión optimista, reposada, de Huszarik, su reverso, después de ver sus películas es imposible no ser creyente, como sucede con Oguri, un cine cosmogónico, totalizador, integrador, universal, sensorial, natural, de armonía absoluta entre el hombre y la tierra, cine virgen, cine renacentista con los pies metidos en el agua, cine realizado desde el paraíso, sin alegría mozartiana, limpio de pecado, de vergüenza, de maldad, de pesimismo.
Nostos, il ritorno. Una deslumbrante reinterpretación del mito de Ulyses como la hubiera realizado Abuladze, Sokurov, o el Tarkovski más inspirado, con dos batallas en fuera de campo que hubieran dejado mudo al propio Bresson, y con la introducción al final de la misma música de Monteverdi que Bresson utiliza en "Mouchette" de una manera que sobrecoge, que pone los pelos de punta, no hacen falta subtítulos, sólo hay imágenes, y sonidos, de los más bellos, necesarios, que hayáis visto, escuchado, nunca.
Un Ulyses humano, cristiano, que regresa al mundo, a la infancia del mundo, procedente del otro lado, de la muerte, un Ulyses resucitado, recién parido, que redescubre el mundo, la vida, a cada paso, a cada mirada, un mundo, una vida, habitables, vivibles.


Nove anni dopo il successo de "Il pianeta azzurro", Franco Piavoli torna al cinema con "Nostos - Il ritorno" dove, partendo dall'Odissea, imbastisce una nuova visione dell'Ulisse omerico. L'Ulisse di Piavoli è un eroe spietato e crudele ma che, ad un certo punto, sogna di ritornare a casa. E il suo viaggio è un ritorno non solo nelle braccia della moglie, ma soprattutto un cammino catartico che vede purificarsi il nostro eroe dalle malefatte della guerra grazie all'intercessione di Madre Natura. Non è un caso che abbia nominato sia Madre Natura che Penelope, entrambe figure materne: "Nostos - Il ritorno", più intrinsecamente, non ci racconta nient'altro che il percorso di un uomo che vuole recuperare la sua condizione di neonato (e quindi di innocenza). Il regista esplicita la cosa con almeno due sequenze, quella ambientata nella grotta, dove Ulisse non è altro che l'ombra riflessa nell'utero della Terra, e quella di una nuotata affannata verso una luna riflessa nel mare, che paragona (nemmeno troppo velatamente) Ulisse con uno spermatozoo e la luna con un gigantesco e luminescente ovulo. Le immagini che ci raccontano il viaggio del protagonista sembrano arrivare direttamente da "Il pianeta azzurro", solo che in questo caso si assumono il grande impegno non solo di emozionare lo spettatore ma di diventare soprattutto una sorta di descrizione psicologica del protagonista della pellicola, scelta che sembra riprendere il discorso dell'espressionismo tedesco (anche se naturalmente, con risultati visivi differenti).
Poi c'è il suono, elemento fondamentale nel cinema di Franco Piavoli che, in questo caso, compie la scelta estrema di scrivere i dialoghi in una lingua da lui inventata, che riprende in parte latino, greco e le lingue della zona mediterranea. "Nostos - Il ritorno" si trasforma dunque in un film dove non sono le parole a portare il significato, ma sono i suoni gutturali di questa nuova lingua, incomprensibili nel loro reale significato, ma del tutto chiari se ci si lascia trasportare dal loro  suono. I dialoghi quindi si fondono e diventano parte integrante di una colonna sonora ben architettata da Piavoli, che la inserisce in un montaggio straordinariamente evocativo ed epico (seppur lontano dall'epica che ci immaginiamo).
Alle prese con una storia più solida e complessa, Piavoli si dimostra essere nuovamente un autore originale, un narratore che sa andare al cuore della questione pur concedendosi preziose derive visive, un tipo di poesia per immagini che sa arrivare nel cuore dello spettatore.
http://www.pellicolascaduta.it/wordpress/?p=1837


viernes, 25 de febrero de 2011

1960 - Gabriele Salvatores (2010)


TITULO 1960
AÑO 2010
SUBTITULOS No
DURACION 75 min.
DIRECCION Gabriele Salvatores
GUION Gabriele Salvatores, Michele Astori, Massimo Fiocchi
FOTOGRAFIA Marco Sgorbati
REPARTO Giuseppe Cederna
MONTAJE Massimo Fiocchi, Chiara Vullo
MUSICA Federico De Robertis
PRODUCCION OffSide, Rai Cinema
PRODUCTOR Mario Gianani
GENERO Social / histórico
FESTIVALES Fuori Concorso 67 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia

SINOPSIS Verano 1959. La voz de un adulto evoca los días cuando sólo era un niño del sur que todavía no conocía nada. El recuerdo de aquel verano sigue vivo en su memoria: fue el último que pasó con su hermano Rosario antes de que éste se fuera al Norte. Después lo que une a los dos hermanos son las cartas que Rosario envía desde Milán, ciudad donde se ha trasladado. En las cartas le cuenta su nueva vida, la libertad conquistada y de sus amigos; escribe sobre un mundo mágico y de hadas donde todos consiguen lo que desean. Milán aparece como el país de los juguetes, una especie de tierra prometida. Son estas cartas que preocupan la familia: Rosario ha cambiado, tanto que se haya olvidado de su compromiso con Rosalba, la chica de su pueblo que le ama y le espera. La familia, con el fin que vuelva el hijo a casa, decide emprender un largo viaje por Italia descubriendo un país que está cambiando, arrastrado por el boom económico. El viaje se transforma en una especie de sueño caracterizado por las maravillas de Nápoles y Roma, de las Olimpiadas, de La dolce vita de Fellini y de la Rimini de los amores de verano. Sin embargo, el objetivo sigue siendo el encuentro con Rosario. En Milán no hay rastros de él. Finalmente en la capital del milagro económico descubren la verdad: Rosario es un obrero, trabaja en el túnel del Monte Blanco y es un emigrante como muchos más. Sus cartas eran falsas, las había escrito a su hermano pequeño para esconderle la dureza de la vida cotidiana y el drama de la emigración. Sin embargo esas mentiras han permitido al protagonista de vivir el mejor año de su vida, haciéndole comprender que las personas tienen el derecho de creer en sus propios sueños.
Toda la narración se basa en las imágenes de las Teche Rai el cuento es enriquecido con las imágenes de las Teche Rai.

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Magia e Nostalgia. La storia di un bambino che voleva fare il mago ed è diventato regista

Estate 1959. Gente felice al mare. La voce di un adulto rievoca quei giorni, di quando era piccolo. Il ricordo di quella estate è ancora vivo nella sua memoria: è stata l’ultima che ha trascorso insieme al fratello Rosario, prima che quest’ultimo partisse per il nord, destinazione Milano.
Da questo momento a tenere uniti i due fratelli sono le lettere che Rosario manda da quella grande città, così lontana. Racconta della sua nuova vita, della libertà che ha conquistato, degli amici con cui trascorre il suo tempo, scrive di un mondo magico, fatato dove ognuno ottiene ciò che desidera. Ma sono quelle stesse lettere a mettere in allarme la famiglia: Rosario da quando è a Milano si è trasformato in un ribelle, ha perfino dimenticato la promessa di matrimonio fatta a Rosalba, una ragazza del suo paese che lo ama. I genitori capiscono che bisogna fare qualcosa e allora decidono di partire per riportare il figlio a casa. Inizia un lungo viaggio alla ricerca di Rosario che porterà questa famiglia ad attraversare tutta l’Italia ed a scoprire un paese che, trascinato dal boom economico, sta cambiando sotto i loro occhi.
Il viaggio di questa famiglia attraversa l’italia, dal sogno scandito dalle contraddizioni di Napoli, dove al bar lavorano bambini, apprendisti barman, di 9 anni, alla Roma delle Olimpiadi e di via Veneto, dove bastava il passo elegante di una ragazza (quel passo che solo le ragazze degli anni 60 sapevano falcare) a far voltare la testa agli uomini, al mito romanzato della straniera e della riviera romagnola. Fino ad arrivare a Milano, da Rosario, dove scopriranno la verità su di lui.


Fuori Concorso alla 67. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Gabriere Salvatores dirige (Giuseppe Cederna legge) un anno di storia: il 1960! 1960 è più di un documentario. Realizzato utilizzando materiale delle Teche Rai, Gabriele Salvatores ha tinto di fresca e dolce nostalgia un periodo unico, dal boom economico, all’emigrazione, alla televisione e al cinema. ’Il montaggio cinematografico - spiega ancora Salvatores - puo’ riscrivere radicalmente la storia di un film. In generale, puo’ modificare o riscrivere anche la storia degli anni che abbiamo vissuto. Partendo da queste riflessioni abbiamo provato a costruire una storia inventata con le immagini reali della televisione del 1960’’.
Non è nemmeno un affresco storico. Il montaggio di questo lavoro di Salvatores appassiona, fa sorridere, commuovere, perché è la persona, uomo, donna o bambino, è il viso, lo sguardo, le mani, sono Celentano e Mina, Mastroianni e Sordi, è la Cinquecento, è il sogno che divengono protagonisti. Salvatores ha raccontato l’Italia attraverso la fiction visiva, si è servito del materiale di repertorio girato da altri per realizzare una sua magia, per parlare di sé stesso.
Ad aiutarlo in questo progetto sono accorsi il giornalista Michele Astori e il montatore di tutti i suoi film Massimo Fiocchi. ’’Piu’ che un documentario sembra un film fatto di sogni e ricordi. Vorremmo ringraziare tutti i giornalisti e gli operatori cinematografici che ci hanno fornito inconsapevolmente le loro immagini, a cui abbiamo cercato di dare nuova vita e nuovi significati. Immagini bellissime. Non e’ un caso che il 1960 sia stato anche un anno eccezionale per il cinema italiano’’ ha dichiarato Salvatores.
1960, avrà un privilegio: quello di poter essere visto da un pubblico più vasto, infatti andrà in onda su Rai3 ad Ottobre dopo la trasmissione Che tempo che fa? Salvatore ha realizzato un’opera, una piccola perla luminosa, con immagini in bianco e nero che evocano ancor di più un sentimentalismo reale, assolutamente non sdolcinato, ed è qui che sta la preziosità di 1960. 1960 è la storia di un bambino che voleva fare il mago ed è diventato regista.
Ilaria Falcone
http://www.nonsolocinema.com/1960-DI-GABRIELE-SALVATORES_20962.html

jueves, 24 de febrero de 2011

Gli Occhiali D'oro - Giuliano Montaldo (1987)


TÍTULO Gli occhiali d'oro
AÑO 1987 
SUBTITULOS Si (separados)
DURACIÓN 110 min.
DIRECTOR Giuliano Montaldo
GUIÓN Nicola Badalucco, Antonella Grassi, Giuliano Montaldo, Valerio Zurlini (Novela: Giorgio Bassani)
MÚSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA Armando Nannuzzi
REPARTO Philippe Noiret, Rupert Everett, Valeria Golino, Nicola Farron, Stefania Sandrelli, Roberto Herlitzka, Riccardo Diana, Anna Lezzi 
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Yugoslavia
GÉNERO Drama | Homosexualidad. Racismo. Años 30

SINOPSIS Historia de una familia judía y un médico homosexual que sufren persecución por sus respectivas condiciones de raza e inclinación sexual en la Italia fascista de 1938. (FILMAFFINITY)

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Dal romanzo omonimo di Giorgio Bassani, il film di oggi. Diretto da Giuliano Montaldo sulla scorta di una sceneggiatura firmata anche da Nicola Badalucco, che aveva collaborato a suo tempo ad una riduzione analoga firmata da Valerio Zurlini e mai realizzata. Ottimi presupporti, con risultati penò inadeguati.
Il romanzo, che Bassani aveva scritto alla fine del Cinquanta, tornava al 38, sotto il fascismo, e narrava la vicenda di un medico di Ferrara accettato negli ambienti anche benpensanti nonostante la sua omosessualità fino al giorno in cui una sua relazione con uno scapestrato non gli faceva perdere ogni discrezione; con conseguenze tali da indurlo al suicidio.
Su questa storia il film ne inserisce anche un’altra, desunta da un altro racconto di Bassani, che mette a fianco del narratore del romanzo una ragazza, ebrea come lui, che prima lo ama poi, al momento in cui cominciano le persecuzioni razziali, gli si allontana, si fa battezzare e sposa un “ariano”. L’idea non è sbagliata perché oltre a non puntare tutto sugli Occhiali d’oro (che ha pagine non sempre gradevoli e di lettura ostica, specie quando si mettono accenti molto forti sulle umiliazioni e la discesa agli inferi del protagonista), anticipando i tempi delle lotte razziali in Italia e sottolineandone parecchie conseguenze anche di contorno, consente di costruire, se non il film, almeno le sue atmosfere, soprattutto attorno alle intolleranze nei confronti delle diversità; in linea con le migliori aspirazioni “civili” del cinema di Montaldo. Se queste atmosfere, penò, ci sono, e sono severe e degne, la struttura narrativa che fa loro da supporto non è altrettanto rigorosa. Intanto inserisce con una certa fatica l’una nell’altra le due storie, e in quella della ragazza non ha quasi mai invenzioni molto vivide, poi, nel disegno dei personaggi, non solo quelli di contorno, ma anche i principali, stenta ad arrivare a veri approfondimenti psicologici, vedendo abbastanza dall’esterno quello del medico e riuscendo di rado a dar dimensioni motivate a quello del narratore, diviso fra la sua pietà per il perseguitato e l’ansia per le persecuzioni come ebreo che a sua volta comincia a subire e che, oltre a creargli difficoltà negli studi, vanificano presto le sue aspirazioni sentimentali.


Montaldo, che è un regista fine ed attento, si è visibilmente sforzato di superare questi scompensi, ma vi è riuscito soprattutto quando ha cercato di guardare con la stessa pietà ‘de! narratore ai casi del protagonista – accennando ad ogni elemento con tatto e discrezione – e quando, attorno a queste vicende “datate”, sostenuto dalla fotografia di Armando Nannuzzi, dalle scenografie di Luciano Ricceri e dai costumi di Nanà Cecchi, ha evocato una cornice d’epoca per un verso realistica e per un altro affidata, con buon intuito, a una certa distanziazione letteraria: a metter l’accento sul ricordo. Meno felice nelle pagine che, sostituendo gli alberghi e le spiagge della Rimini del 38 con panorami dalmati, provocano strappi anche di stile, ispirato, caldo e sincero, invece, quando si muove e fa muovere i personaggi in una Ferrara grigia e piovosa, elegante ma già torva, ad anticipare quel senso di “cappa di piombo” prima avvisaglia degli anni terribili in arrivo.
Questa stessa cappa di piombo, ma psicologica, nei due interpreti principali: Philippe Noiret, che disegna volutamente sempre sottotono e quasi dal di fuori il carattere dimesso, rassegnato e sempre più afflitto del medico, Rupert Everett, abbastanza capace di farci sentire, nel narratore, la coscienza dei tristi eventi che si preparano e il riflesso doloroso che hanno già nei suoi casi personali in parallelo con la solidarietà per quelli del protagonista. Fra gli altri interpreti c’è anche Valeria Golino, la ragazza che abbandona il narratore. L’ho già detto altre volte: ha un viso anni Novanta. Qui, nei costumi dei Trenta, perde di slancio e di smalto; troppo donna di domani per truccarsi come quelle di ieri.
Gian Luigi Rondi
Da Il Tempo, 27 settembre 1987

miércoles, 23 de febrero de 2011

Block Notes Di Un Regista - Federico Fellini (1969)


TÍTULO Block-notes di un regista (TV)
AÑO 1969 
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACIÓN 52 min.
DIRECTOR Federico Fellini
GUIÓN Federico Fellini, Bernardino Zapponi
MÚSICA Nino Rota
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Documentary, Ennio Antonelli, Caterina Boratto, Marina Boratto, Federico Fellini, Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Nino Rota, Alvaro Vitali
PRODUCTORA National Broadcasting Company (NBC)
GÉNERO Documental | Biográfico. Mediometraje. Documental sobre cine

SINOPSIS Fellini opina sobre como hacer películas y sus procedimientos poco ortodoxos. Él busca la inspiración en varios sitios. Durante este film los espectadores de la película van con él al Colisseum de noche, dan un paseo por las catacumbas romanas a la Vía Apia, pasan por un matadero, y hacen una visita a la casa de Marcello Mastroianni. Fellini también es visto en su propia oficina entrevistando una serie de personajes caracteristicos de sus peliculas. (FILMAFFINITY)

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 Subtítulos (en italiano, para las partes en inglés)
 
Prodotto dalla rete NBC su committenza della Burlington Industry (prodotti chimici) che, visto il prodotto, si ritirò dal finanziamento. Invece di essere un'intervista con Fellini sul suo mondo poetico, il film in lavorazione (Satyricon), i progetti abbandonati (Il viaggio di G. Mastorna, ecc.), il regista realizzò “uno splendido autoritratto, indubbiamente parco di notizie autobiografiche, di curiosità, di pettegolezzi... ma in compenso assai più illuminante di quanto avrebbe potuto esserlo la più abile e maieutica intervista” (L. Miccichè). Doveva essere un documentario di taglio giornalistico, ma è un vero e proprio TV movie, in bilico tra finzione e saggio. Tra i collaboratori Pasquale De Santis (fotografia), Nino Rota (musiche), Ruggero Mastroianni (montaggio).
di Laura, Luisa e Morando Morandini
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=43724


Il viaggio di G. Mastorna

Es la más famosa de las películas que nunca llegaron a realizarse. Se habla de ella desde 1965, cuando Fellini la escribió en la villa que por aquel entonces había alquilado en Fregene. Al leer la historia de la preparación de esta película en el único libro que la documenta con precisión - la bellísima biografía de Tullio Kezich consagró a Fellini - nos damos cuenta de que podía convertirse en el tema de otra película llena de sorpresas acerca del mundo del cine.
Durante muchos años Fedrico Fellini nos anunció esta película en la que iban a figurar los actores cómicos vivos en activo como el mismo Groucho Marx, Danny Kaye y demás, con Marcello Mastroianni de protagonista. Dino de Laurentiis era el productor pero los dioses se pusieron en contra y finalmente el rodaje se canceló.
El proyecto de Fellini no estaba sólo en los papeles, ya que para sus escenarios se construyeron una inmensa reproducción en madera de una catedral gótica, similar a la de Colonia, y el armazón de un avión de pasajeros DC-8. Estas voluminosas construcciones quedaron durante mucho tiempo en un terreno adyacente a los estudios de Dino de Laurentiis. Con el tiempo se convirtieron en ruinas, y hasta en el refugio de una comunidad hippie, que llegó a componer un blues de Mastorna.
Las disputas económicas con De Laurentiis a causa de Mastorna fueron muy duras. El productor llegó a pedir el embargo de sus bienes, e incluso le fueron incautados algunos muebles. Fellini alcanzó a poner sus posesiones a nombre de su mujer.
Fellini tuvo la posibilidad de que la United Artists le financiara la continuación del proyecto, pero las dudas del director en cuanto al protagonista, y el alejamiento de Mastroianni, hicieron que la productora le retirara el respaldo. Para protagonizar a Mastorna, además de Mastroianni, se barajaron los nombres de Steve Mc Queen, Paul Newman, Vittorio Gassman, Lawrence Olivier y Ugo Tognazzi, quien fue el único que llegó a firmar un contrato. Fellini luego diría: “Creo haber defraudado a todos los actores del mundo, y haber hecho todo lo que se puede hacer para merecer la fama de embustero”.
Fellini incluso trató de continuar la película formando una productora propia, Fulgor Films (en homenaje al cine de Rímini donde había visto las primeras películas), pero esta empresa tuvo corta vida.
En marzo de 1967, Fellini cayó enfermo con dolores en el pecho, y si bien luego se vio que su enfermedad no era grave, él creyó estar agonizante, e incluso clavó en la puerta de la habitación una nota para Giulietta, pidiéndole que no entrase primero,  por si ya estaba muerto. Estuvo internado más de un mes. Dino De Laurentiis llegó a enviar a su médico personal para comprobar el estado de salud del director, ya que suponía que Fellini estaba simulando una enfermedad grave.
Luego de su convalescencia, y de infructuosas reuniones con De Laurentiis, el productor Alberto Grimaldi decidió apoyar financieramente su nuevo proyecto, el Satiricón, de Petronio, convino pagar la deuda que Fellini mantenía con De Laurentiis, y hacerse cargo del proyecto Mastorna, que a la larga Fellini descartaría para siempre.
http://desdemona.scoom.com/2010/01/10/il-viaggio-di-g-mastorna/

martes, 22 de febrero de 2011

L'Inferno - Giuseppe de Liguoro, Francesco Bertolini, Adolfo Padovan (1911)


TÍTULO L'Inferno
AÑO 1911 
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 70 min.
DIRECTOR Giuseppe de Liguoro, Francesco Bertolini, Adolfo Padovan
GUIÓN Poema: Dante Alighieri 
MÚSICA Película muda / Versión restaurada: Tangerine Dream
FOTOGRAFÍA Emilio Roncarolo
REPARTO Salvatore Anzelmo Papa, Arturo Pirovano, Giuseppe de Liguoro, Augusto Milla, Attilio Motta
PRODUCTORA Coproducción Italia-Reino Unido; Helios
GÉNERO Fantástico. Terror. Drama. Aventuras | Cine mudo

SINOPSIS Adaptación libre del poema de Dante Alighieri "La divina comedia", e inspirado en las ilustraciones de Gustav Doré. Fue una de las primeras películas surrealistas. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

 Así como en la actualidad los comics transplantados al cine tratan de distinguirse por su cada vez más alto compromiso visual con las obras originales, en los años '10 el más importante país productor de películas, Italia, redobló la apuesta llevando a la pantalla al Padre de las Letras Dante Alighieri, con la primera parte de la "Divina Comedia", tomando como influencias visuales las ilustraciones maestras de Gustavo Doré. Dividida en tres partes, fue la película más larga jamás vista hasta 1912 y fue más allá del típico filme de tableaux - tal como era la categoría genérica de los montajes de Pasiones de Cristo - ampliando un poco la dinámica narrativa y ofreciendo una realmente apasionante batería de efectos especiales. Ubicados en su época, algunos cuadros son más atractivos que otros. Son de destacar el plano de Dante y Virgilio observando el cielo surcado por las almas de los pecadores llevadas por vientos arremolinados (un concepto complejo pero lúcidamente puesto en pantalla por los realizadores), la secuencia de Francesca da Rimini (simplona pero significativa), Caifás crucificado en tierra y siendo apisonado por las almas en pena de los hipócritas y las clásicas imágenes de Lucifer mascando al traidor máximo Bruto. A diferencia del planteamiento posterior que seguiría la narrativa cinematográfica, este filme presenta cartones que anticipan los diálogos y acciones que se verán acto seguido. Esta dificultad no habrá impedido a los espectadores de 1911 salir de la sala de exhibición con una fuerte y agradable sensación de alienación inspirada tras más de una hora de alucinante metraje, mérito que, creemos, la obra aún conserva.
http://www.cinefania.com/movie.php/357/

...
Con mucha frecuencia, el intérprete es el actor Salvatore Papa, napolitano. Papa desempeña luego el papel de Dante en la "superpreoducción", ya de largo metraje (1909), dedicada al Inferno de Dante en tres partes y cincuenta y cuatro episodios y donde se ven, por especial trabajo del operador Emilio Roncarolo, más diablos y llamas de azufre que en los films de Méliès. Aquí los pescadores, echados en el arenal del Canalone Porta, miran de vez en cuando al objetivo y sonríen, como en las primeras actualidades, burlándose de Caronte, desnudo hasta la cintura, con una cola inverosímil, una verdadera maravilla de barracón ambulante, y que los fulmina con miradas malignas. Está, luego, Virgilio, un Virgilio torpe y soñoliento que tira cada tanto a Alighieri de los bordes de su iluste manto. Los versos del poeta y los furibundos virados en rojo fuego de las escenas infernales eran suficientes para integrar en la mente del autor de la versión cinematográfica la atmósfera dantesca, para completar la cual el teatro Mercadante de Nápoles aparece la noche del estreno todo empavesado de lámparas rojas, como un cabaret de Montmartre. No obstante todo, aparece otro Inferno el año siguiente, por la Helios Film de Velletri, reducido a 400 metros, en el cual en cierto momento se ve también a Tais, completamente desnuda y acurrucada sobre las nalgas temblando miserablemente de frío, hasta que interviene la policía para sacarla de esta incómoda posición.
...
Historia del cine mudo, Roberto Paolella, Eudeba 1967 (Pág. 81) 

lunes, 21 de febrero de 2011

Il successo - Mauro Morassi (1963)


TÍTULO Il successo
AÑO 1963 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 92 min.
DIRECTOR Mauro Morassi, Dino Risi
GUIÓN Ettore Scola, Ruggero Maccari
MÚSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA Alessandro D'Eva (B&W)
REPARTO Vittorio Gassman, Anouk Aimée, Jean-Louis Trintignant, Cristina Gajoni, Leopoldo Trieste, Umberto D'Orsi, Riccardo Garrone, Gastone Moschin
PRODUCTORA Coproduccion Italia-Francia; Fair Film / Incei Film / Cinetel
GÉNERO Comedia. Drama | Comedia dramática

SINOPSIS Un empleado de una multinacional desea a toda costa prosperar, a pesar de que su mujer no desea que cambie pues le ama tal como es. Para alcanzar su propósito debe conseguir, en poco tiempo, diez millones de liras para invertirlos en un lucrativo negocio inmobiliario. Pero su obsesión por enriquecerse cambia su carácter, se vuelve huraño y, por consiguiente, se aleja cada vez más de los suyos. (FILMAFFINITY)


« Soltanto i quattrini danno il coraggio, coi quattrini puoi far tutto, tutto! »
 (Giulio [Gassman] rivolto all'amico Sergio [Trintignant]) 

Il successo è un film del 1963 diretto da Mauro Morassi, con protagonisti Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, la stessa coppia che l'anno precedente fu protagonista de Il sorpasso di Dino Risi, al quale si deve parte della regia anche di questo film, da egli portato a termine.
La commedia parla della spinta a arricchirsi di certa società degli anni sessanta, con un Gassman che, nel ruolo del trentottenne e infelice intellettuale Giulio Ceriani, cerca il successo per mezzo della speculazione edilizia in Sardegna.

Non avendo il denaro per acquistare il terreno da lui individuato come frutto della sua fortuna, Giulio si fa in quattro per avere dei prestiti da vecchie conoscenze, fino a perdere ogni dignità.
Alla fine vi riuscirà, sacrificando la vita di famigliari e amici, agli occhi dei quali egli appare ora una persona diversa. Perde il suo unico amico, Sergio, interpretato da Trintignant, e la moglie, Laura, interpretata dalla Aimée, in virtù di una vita da ricco ma senza amici e amore.
Dino Risi non è accreditato come regista assieme a Morassi, pur avendo girato parte della pellicola.

domingo, 20 de febrero de 2011

Tre fratelli - Francesco Rosi (1981)


TÍTULO Tre fratelli
AÑO 1981 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 113 min.
DIRECTOR Francesco Rosi
GUIÓN Francesco Rosi, Tonino Guerra
MÚSICA Pino Daniele, Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Philippe Noiret, Michele Placido, Vittorio Mezzogiorno, Andréa Ferréol, Maddalena Crippa, Rosaria Tafuri, Marta Zoffoli, Tino Schirinzi, Simonetta Stefanelli, Charles Vanel
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Iterfilm, Société des Etablissements L. Gaumont
PREMIOS
1981: Nominada al Oscar: Mejor película de habla no inglesa
GÉNERO Drama

SINOPSIS Una visión de los aspectos más controvertidos de la Italia de los años 80 a través de la historia de tres hermanos y su familia. (FILMAFFINITY

Enlaces de descarga (Archivos cortados con HJ Split)
 
 
Apologo sul tema della morte nella società contadina, liberamente ispirato al racconto Il terzo figlio di Andrej Platanov, è un film sulla memoria e insieme sulla società italiana degli anni ’80. Si svolge attraverso la dialettica tra le diverse opinioni politiche di tre fratelli, tornati nella casa contadina dell’infanzia per la morte della madre, e attraverso il confronto tra i loro diversi "sogni", nei quali ognuno vivrà un possibile sviluppo della sua esistenza. Il film è girato in una masseria e i Sassi quasi non c’entrano. Appaiono soltanto un paio di cortili della parte più nuova, una costruzione che raffigura un istituto di rieducazione a Napoli e una Piazza della Matera alta.

Tre fratelli è un film del 1981 diretto da Francesco Rosi.
Soggetto di Rosi e Tonino Guerra liberamente tratto dal racconto Il terzo figlio di Platonov. Ha ricevuto 4 David di Donatello e la nomination all'Oscar.
Tre grandi attori protagonisti e una commovente interpretazione di Charles Vanel nel ruolo dell'anziano padre, difficile da distinguere da un autentico contadino pugliese.
È stato presentato fuori concorso al 34º Festival di Cannes.
Trama
È la storia di tre fratelli originari del sud, divisi dalla differente età e da percorsi di vita molto diversi, che si ritrovano dopo molti anni al paese natio in occasione della morte della madre.
Ognuno fa i conti con il proprio passato e si confronta-scontra con i fratelli e il padre, facendo un bilancio della propria vita. Sullo sfondo il malessere della cupa Italia dell'inizio degli anni ottanta, tra lotte operaie contro la restaurazione, disagio sociale e ultimi colpi di coda del terrorismo, che Rosi analizza attraverso lo scontro generazionale-familiare.
Curiosità
Nel film Baarìa di Giuseppe Tornatore, nella scena in cui Peppino Torrenuova accompagna suo figlio in stazione, si intravedono sullo sfondo le locandine del film Tre fratelli.

sábado, 19 de febrero de 2011

Baaria - Giuseppe Tornatore (2009)


(A mi amigo del alma Juan Carlos A.)
 
TÍTULO 
Baarìa - La porta del vento
AÑO 
2009 
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
150 min.
DIRECTOR 
Giuseppe Tornatore
GUIÓN 
Giuseppe Tornatore
MÚSICA 
Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA 
Enrico Lucidi
REPARTO 
Francesco Scianna, Margareth Madè, Raoul Bova, Giorgio Faletti, Leo Gullotta, Nicole Grimaudo, Gabriele Lavia, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Nino Frassica, Aldo, Ficarra, Picone, Marcello Mazzarella, Luigi Lo Cascio
PRODUCTORA 
Medusa Film / Quinta Communications / Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC)
GÉNERO 
Comedia. Drama | Histórico

Sinópsis 
"Baarìa" es un relato épico que abarca tres generaciones, desde la década de 1930 hasta los tiempos modernos, usando como telón de fondo el surgimiento del fascismo, la Segunda Guerra Mundial y los manejos políticos de la Italia de posguerra. Con un presupuesto de 25 millones de euros (35,5 millones de dólares), fue la película de apertura del Festival de Venecia. Seleccionada por Italia como candidada al Oscar 2010 en la categoría de película de habla no inglesa. (FILMAFFINITY)

  Premios
2009: Nominada al Globo de Oro: Mejor película de habla no inglesa 

CD1
1 
2 
Sub 
 
CD2
1 
Sub 

 "Noi Terranuova vorremmo abbracciare il mondo, ma abbiamo le braccia troppo corte."


Il giorno di Tornatore Bagheria come l' Italia dall' innocenza alle bustarelle

Baarìa inizia con un bambino che corre velocissimo lungo una strada di terra tra vecchie case percorse da carretti tirati da muli; 150 minuti dopo si chiude con un bambino che corre velocissimo tra i fitti palazzi della speculazione, nella stessa strada ormai trafficata da un muro di automobilie moto. Sono passati sessant' anni, a Bagheria, 60 mila abitanti, alle porte di Palermo: là è nato 53 anni fa Giuseppe Tornatore, che se l' è tenuta nel cuore anche dopo averla lasciata a 28 anni, e adesso finalmente è riuscito a raccogliere tutte le storie che hanno attraversato la sua infanzia e giovinezza, i personaggi che l' hanno colorata con le loro voci e le loro facce, per farne un grande film, autobiografia sua, di un paese, di un' epoca, di un' Italia che lui stesso non sa giudicare se peggiore o migliore di quella di oggi. La grande forza del film, da cui gli spettatori italiani saranno privati per ragioni di mercato,è che la folla di attori che lo popolano parla in dialetto baarioto, con quelle grida gutturali che ci ricordano una regione, una nazione che avevamo dimenticato in tutta la sua sottomissione primitiva, la sua superstiziosa rassegnazione, il suo abbandono.

In italiano il film, accolto ieri in modo tiepido dalla stampa internazionale, ma con dieci minuti di applausi nella proiezione con il pubblico, sarà più comprensibile, ma certamente meno commovente e ipnotizzante, perché i suoni di quella lingua quasi selvaggia, aderiscono, completamente alle persone e ne esaltano le storie. Ci sono gli anni del bambino Cicco, quelli del fascismoe della mafia più primitiva, che va a fare il pastore sulle Madoniee in cambio la famiglia riceverà una provola e qualche primosale. I raccoglitori di olive vengono perquisiti perché non si nascondano addosso un frutto; se no anche un bambino verrà spinto più volte da due uomini contro un albero, affinchè impari la lezione dell' obbedienza. Cicco si rifiuta di cantare l' inno al duce e lo sbattono dietro la lavagna: dovrà comunque smettere di studiare perché la capra gli ha mangiato il libro di scuola. Nella miseria Cicco diventa adulto, mette su famiglia, arriva il figlio Peppino e sua sarà la storia centrale di Baarìa. Lo interpreta il siciliano Francesco Scianna, bravo attore di teatro. È lui il comunista, che il giorno della strage di Portella delle Ginestre, farà sfilare i compagni in silenzio con il bottone del lutto sulla camicia, è lui che dopo la guerra, nel locale dove le donne e gli uomini ballano separati, avrà il coraggio di invitare la ragazza che già ama, e che è la bellissima siciliana Margareth Madè, modella al suo primo film. Peppino è così povero che non può neppure organizzare la fuitina: i due innamorati si chiuderanno in cucina mentre le donne di famiglia fuori gridano al disonore, con poca convinzione, perché così si fa, tanto poi si sposeranno. Tornatore pensava a questo suo film da anni, raccogliendo storie che gli avevano raccontato la nonna, i genitori, gli amici, ricordi di facce, voci, paesaggi, ma anche fantasie, nostalgie, forse rimorsi. Un film grande, corale, che mostrasse gli infiniti spazi delle meravigliose Madonie e nello stesso tempo gli angusti squallidi luoghi di vita, gli stracci dei braccianti e i cappelli dei padroni, le bocche sdentate dei poverie quelle luccicanti d' oro dei ricchi, l' architettura sontuosa di villa Palagonia con i suoi mostri e gli antri miserevoli dove si nasce, si vive, si ama, ci si ammala e si muore. La storia del cinema è piena di film sulla Sicilia, non solo italiani: storie di mafia soprattutto, di padrini, ma anche di aristocrazia, di pescatori, di braccianti, di piccola borghesia. Tornatore tutte queste storie le ha riunite in un solo film, coraggiosamente. Con quei suoi modi gentili, quasi indifesi, il regista è riuscito a riunire tutto il meglio del cinema italiano, attori abituati ad essere protagonisti, che hanno accettato ruoli di pochi minuti: Monica Bellucci è in un lampo abbracciata a un muratore, spiata dai ragazzi della scuola col permesso dell' insegnante, Lina Sastri è una mendicante-indovina che gira con un figlio scemo, Luigi Lo Cascio, Raoul Bova un giornalista dell'Unità, Angela Molina la nonna, Ficarra e Picone due amici, Enrico Lo Verso un pastore, Michele Placido l'esponente del Pci. Gli attori professionisti sono 63, i non professionisti 147, le comparse 35.000. Gli episodi sono brevi, si accavallano, dando a tutto il film un ritmo di vita che la musica di Ennio Morricone sottolinea con la solita efficacia. Tutto appare lieve, fermo in un tempo di cui oggi Tornatore ci fa sorridere, come se il presente fosse diverso, mentre è diverso solo nelle forme, nei rumori, negli abiti che ormai nascondono le differenze e la povertà; la polizia di Stato che disperde le manifestazioni contadine, l' assessore all' urbanistica cieco che si fa fare la pianta della città in rilievo per passarci sopra le mani e prende le bustarelle per le concessioni edilizie, la tracotanza dei politici e la mafia, che solo si è fatta meno rustica e più potente.
Poi c' è Tornatore bambino: quando a 5 anni il papà lo porta al cinema a vedere Uno sguardo dal ponte, quando riesce ad avere fotogrammi di Catene, di Salvatore Giuliano, di Il Vangelo secondo Matteo. Di quella Bagheria che ha amato e da cui è fuggito, non rimane quasi nulla e tornandoci a trovare sua madre che abita in campagna, la raggiunge direttamente senza fermarsi in città, se non pochi momenti, per ritrovare gli ultimi amici comunisti.
Natalia Aspesi
Da La Repubblica, 3 settembre 2009

viernes, 18 de febrero de 2011

L'Avventura - Michelangelo Antonioni (1960)


TÍTULO L'avventura
AÑO 1960 
SUBTITULOS Si (Separados)
DURACIÓN 145 min.
DIRECTOR Michelangelo Antonioni
GUIÓN Tonino Guerra, Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini
MÚSICA Giovanni Fusco
FOTOGRAFÍA Aldo Scavarda (B&W)
REPARTO Gabriele Ferzetti, Monica Vitti, Lea Massari, Dominique Blanchar, Renzo Ricci, James Addams
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Cino del Duca P.C / P.C. Europea / Société Cinematographique Lyre
GÉNERO Drama

SINOPSIS Anna, una rica joven romana, su novio y Claudia, su mejor amiga, se unen a un crucero veraniego entre las escarpadas islas sicilianas... (FILMAFFINITY)

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CD 2

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Ci sono dei film gradevoli e dei film amari, dei film leggeri e dei film dolorosi. L’avventura è un film amaro, spesso doloroso. Il dolore dei sentimenti che finiscono o dei quali si intravede la fine nel momento stesso in cui nascono. Tutto questo raccontato con un linguaggio che ho cercato di mantenere spoglio di effetti. Dicono che il film sia «articolato su un ritmo disteso, in rapporti di spazio e di tempo aderenti alla realtà». Non sono parole mie. Parole per dire queste cose, ne ho pochissime a disposizione. Faccio un esempio. Tutti si chiedono vedendo il film: dov’è finita Anna? C’era una scena in sceneggiatura, poi tagliata non ricordo perché, in cui Claudia, l’amica di Anna, è con altri amici sull’isola. Stanno facendo tutte le congetture possibili sulla scomparsa della ragazza. Ma non ci sono risposte. Dopo un silenzio uno dice: «Forse è soltanto annegata». Claudia si volta di scatto: «Soltanto?». Tutti si guardano sgomenti.
Ecco, questo sgomento è la connotazione del film.
Michelangelo Antonioni
Da Il Corriere della Sera», 31 maggio 1976

Questa denuncia della fragilità dei sentimenti codificati dalla morale corrente rientra nel paragrafo, come si è visto caro ad Antonioni, dell’incomunicabilità, cioè della noia in senso moraviano, o meglio che Moravia ha rianalizzato nel suo ultimo romanzo: l’impossibilità di stabilire un rapporto concreto con l’individuo e la realtà, fra l’oggetto e il soggetto, il pensiero e la realtà; la mancanza di rapporti concreti con le cose, con se stesso e gli altri. «Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento e distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà». La noia, questa noia, è connaturata in Dino - il pittore di Moravia che già dalla prima pagina ha rinunciato a dipingere - così come in Sandro e in Giovanni, l’architetto e lo scrittore de L’avventura e La notte. È nata appunto in loro dall’assurdità di una realtà insufficiente di persuaderli dalla propria effettiva esistenza, dall’incomunicabilità e incapacità di uscirne oltre che dalla consapevolezza teorica che sì, potrebbero anche uscirne, «grazie a non so quale miracolo».
Anche in Sandro la “noia” è la conseguente sterilità dell’arte, la resa al conformismo; anche lui, come Dino e Giovanni, è consapevole del proprio fallimento; di qui la confessione del proprio fallimento; di qui la confessione a Claudia, davanti alla fantasia architettonica, al movimento, alla straordinaria libertà della piazza. di Noto; di qui l’umiliazione e l’irritazione che prova nell’incontro con i due giovani architetti che lo spingono a ricordare quanto avrebbe voluto fare e non ha fatto. La confessione è legata al proposito di “piantarla” con Ettore, di abbandonarlo. Ettore rimanda alla madre di Dino, a quella fonte di denaro cui il pittore, come qui l’architetto, non può fare a meno pur disprezzandola, e a essa continua a ricorrere. In entrambi si stabilisce un nesso indubitabile tra la noia e il denaro, la convinzione che la ricchezza annoia e che la noia dipende dalla ricchezza, e la sterilità dell’arte dalla noia. «Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in un certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle». Parimenti Sandro mente anche a Ettore: sa benissimo che quel “divertimento” che egli gli offre non è il contrario della noia né il suo rimedio. Di qui la confessione, ché segna il culmine positivo della sua crisi culturale morale psicologica; Sandro propone a Claudia di sposarlo: anche lui, come Dino, qualche volta pensa che non vuol tanto morire, quanto non continuare a vivere in quel modo.
Sandro e Anna non comunicano. L’amore fisico è il solo possibile tra loro, non si stabilisce altro contatto. «Stare lontani è uno strazio», cerca di spiegare Anna a Claudia. «È difficile tenere in piedi una storia vivendo uno qui e uno là. Però è anche comodo. Sì, perché pensi quello che vuoi. Invece quando sai che è lì, davanti a te, è tutto lì, non c’è più rapporto». Per rendere più reale questo rapporto che sente allentarsi e vanificarsi ogni giorno di più, nel tentativo di superare la noia di Sandro che la divide da lei, Anna ricorre alla bugia del pescecane; ma vista l’inutilità del tentativo di stabilire un contatto al di là dell’amore fisico, si mette da parte, scompare. La noia, l’incomunicabilità di un sentimento ormai spento dopo dieci anni di concubinaggio, divide Corrado e Giulia: «Non ti accorgi», le dice Corrado, «che più si va avanti più diventa difficile parlare con la gente? Capisci?»..
Sandro diventa dunque trasparente a se stesso, come Dino e come Giovanni: ha coscienza della sua condizione, della sua resa, della noia che lo ha portato alla sterilità. Ecco un tratto nuovo de L’avventura rispetto al precedente Antonioni. Tuttavia anche le possibilità di Sandro rimangono “impossibili”, astratte e non concrete; egli è incapace di uscire dalla propria impotenza di uomo e d’intellettuale, dal suo presente. Alla presa di coscienza segue il disgusto che lo riporta sui binari dei rapporti con Anna e, una volta scomparsa Anna, al proposito di vivere con Claudia un analogo “idillio” sulla deserta isola rocciosa: anzi, quanto più la crisi si appalesa a se stesso, tanto più esplode in lui, l’irrefrenabile desiderio del contatto fisico; è proprio allora che, con disperata indifferenza, si lascia trascinare di nuovo in tutte le avventure in tale senso possibili. L’incontro con i due giovani archi
tetti, che segue subito alla confessione fatta a Claudia, alla proposta di matrimonio, lo sospinge nuovamente verso la noia nella somiglianza che questa ha col divertimento di un genere tutto particolare, nei suoi diversi aspetti di “distrazione” e di dimenticanza. Il proposito di distaccarsi dalla realtà, di dimenticare quanto avrebbe voluto essere, determina il suo violento e improvviso desiderio fisico per Claudia, nella stanza dello squallido albergo di Noto; per dimenticare la promessa fatta di abbandonare Ettore - e si accorge, durante la festa al San Domenico Palace, che da Ettore vorrebbe liberarsi soltanto a parole - va con la prostituta di lusso. La noia gli serve ancora per velare il mondo intorno a sé, per portare la realtà alla opacità di partenza.
Sandro non è soltanto trasparente a se stesso; diventa trasparente, alla fine, anche a Claudia: essi comunicano. Il gesto della donna che accarezza la nuca di Sandro, dopo qualche istante di esitazione, non va confuso con un semplice perdono di fronte al “tradimento”; e a noi pare che non si possa neppure parlare semplicisticamente di “pietà”. «Si poteva vivere senza alcun rapporto con niente di reale e non soffrirne?» si domanda il Dino moraviano. Questo è anche il vero problema di Sandro: il suo pianto - e per la prima volta lo vediamo piangere - va appunto inteso in un uguale significato; e il gesto di Claudia è da connettere con la comprensione del problema stesso. Una siffatta comunicabilità è un altro elemento nuovo che emerge nell’opera complessiva di Antonioni; ed esso, che viene a determinarsi nel finale del film, conclude tuttavia l’”avventura”? Quali dimensioni cioè questo elemento assume nell’itinerario dell’autore, entro quale ambito e con quali ulteriori possibilità si articola? In altre parole le novità accennate lo portano a un effettivo “cambiamento” nella sua visione del mondo? La risposta ci viene appunto da La notte.
Guido Aristarco
Da Cinema Nuovo n. 149, gennaio-febbraio 1961, pp. 44-46

jueves, 17 de febrero de 2011

Io la conoscevo bene - Paolo Pietrangeli (1965)


TÍTULO 
Io la conoscevo bene
AÑO 
1965
IDIOMA 
Italiano
SUBTITULOS 
Español (Separados)
DURACIÓN 
99 min.
DIRECTOR 
Antonio Pietrangeli
GUIÓN 
Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari, Ettore Scola
MÚSICA 
Benedetto Ghiglia & Piero Piccioni
FOTOGRAFÍA 
Armando Nannuzzi
REPARTO 
Stefania Sandrelli, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Robert Hoffmann, Joachim Fuchsberger, Enrico Maria Salerno, Karin Dor, Franco Fabrizi, Franco Nero, Veronique Vendell
PRODUCTORA 
Coproducción Italia-Alemania del Oeste-Francia; Les Films du Siècle / Roxy Film / Ultra Film
GÉNERO 
Drama
 
Sinópsis
Cuenta la historia de una muchacha del campo que se traslada a Roma en busca de fortuna, a ser posible en el soñado mundo del espectáculo. Adriana va de amante en amante y de oficio en oficio, desde los anuncios hasta pequeños papeles en el cine. Es ingenua y muy guapa, lo que provoca que muchos hombres no duden en aprovecharse de ella. (FILMAFFINITY) 

Premios
1966: Festival Mar del Plata: Mejor Director

2 
Sub 

Con te si sta bene perché sei una ragazza riposante.

Già nel suo film d'esordio e nei pochissimi altri non dettati da ragioni prettamente mercantili (non più di un paio in tutto, fra i quali va annoverato sicuramente La visita e, forse, La parmigiana, per quanto irritante e scombinatissimo), Pietrangeli ha mostrato un interesse acuto e persistente per un certo tipo di personaggio femminile. Al punto che i suoi due o tre film che vale la pena di ricordare si risolvono, in fondo, in altrettanti ritratti di donne che hanno un dato comune: l'estrazione paesana e provinciale che non riescono, malgrado tutto, a lasciarsi dietro le spalle nell'esperienza, quasi sempre infelice, dell'inurbamento, anche se hanno sofferto e continuano magari a soffrire e respingere le angustie mortificanti della loro origine. La Celestina de Il sole negli occhi e la Pina de La visita sono, in tal senso, due volti della stessa medaglia.
Con Io la conoscevo bene Pietrangeli vorrebbe andare molto oltre, su questa strada, seguendo uno dei suoi personaggi prediletti da uno spopolato paese dell'Appennino toscano alle esperienze abbaglianti e lusingatrici della grande città coi suoi miti falsi e bugiardi prodotti e consumati con crescente voracità, sino a un tragico esito. Protagonista del ritratto è Adriana, via via pettinatrice, mascherina di un cinema all'Eur, aspirante attrice, che riceve e incassa, con una resistenza fatta di disarmante passività e incoscienza, tutta una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni l'una peggiore dell'altra, considerata da quanti la incontrano e la spremono impietosamente non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli.


Un prodotto standard da consumare in fretta in una pausa nella giornata, un oggetto-pop direbbero i più smaliziati. E il regista non a caso ha inteso servirsi di un vastissimo repertorio di motivi musicali tratti dai "Juke-box", che si susseguono con persistenza martellante e ossessiva, a sottolineare l'educazione sentimentale" del personaggio e l'inautenticità dei suoi incontri e rapporti. Ma bisogna subito aggiungere che, su questa via, più che sviluppare un discorso autonomo e personale, Pietrangeli sembra suggestionato da tutta una serie di precedenti, piuttosto eterogenei, che vanno dalla "ragazza con la valigia" di Zurlini alla Cecilia di Moravia mediata attraverso le brutte e inutili immagini del film di Damiani. Per non dire delle ascendenze "retrospettive" del pedinamento zavattiniano del personaggio - le pause vuote di certi pomeriggi in casa, lontano dalla illusoria vitalità dei "Party" e degli amplessi occasionali - e di un certo fellinismo che costituisce un po' il risvolto "originario" e stupefatto di questa Gelsomina '65 scaraventata dalle contrade remote di un'Italia arcaica e provinciale nel frastuono alienante dell'Italia metropolitana e neocapitalistica dell'oggi (si veda in particolare la sequenza dell'incontro notturno col povero pugile "bietolone" e suonato, e il trepido riconoscersi di due "piccole" anime umiliate e offese, ma non guastate, dalla brutalità dell'esistenza e dalla carognaggine del prossimo).
Questo per dire che l'Adriana di Pietrangeli, nella quale pure si potrebbero ritrovare riscontri innumerevoli dal punto di vista di una sociologia approssimativa, è poi un personaggio tutto di testa, costruito se vogliamo con generoso moralismo, documentato fin troppo da quell'incredibile finale, ma con scarsa persuasione interna, soprattutto nella descrizione dei rapporti con quanti sono causa e strumento della sua alienazione. Qui viene fuori infatti la solita galleria di mostri e mostriciattoli a cui ci hanno ormai abituato, sino alla noia, i Risi, i Rossi, i Petri, per ricordare soltanto i meno corrivi. Il "press-agent" da quattro soldi, il "public-relation" senza scrupoli, l'attore arrivato e cinico, il giovane di buona famiglia più ipocrita e spietato del ladruncolo che abbandona la ragazza in un motel senza pagare il conto, lo scrittore famoso e inaridito, e altri ancora, rientrano in una casistica ormai logora, e qui particolarmente diluita od estenuata, in cui gli scampoli della cattiva letteratura di largo consumo piccolo-borghese si sposa al gusto deteriore della trovata e della battuta del cinema volgare degli anni '60.
Non mancano, in verità, episodi e momenti riusciti, di una cattiveria pungente e rattristata (la festa in casa Paganelli e la penosa esibizione del Baggini, impersonato da un Tognazzi mortificato e imbolsito che non dimenticheremo facilmente) e certe pause di vuoto e di sconforto della vita di Adriana vengono descritte con sincera, anche se un po' abbandonata, adesione. Comunque, se è certo che Pietrangeli, il cui ultimo film se non ricordiamo male è addirittura Il magnifico cornuto, ha voluto riguadagnare, sia pure tardivamente, i margini di un discorso che gli appartiene, è altrettanto certo che egli non è riuscito ad arrivare molto lontano, rimanendo sempre al di qua di quel traguardo di spietata rappresentazione che doveva essere nei suoi propositi. Le vie del cinema mercantile, si sa, sono facili da imboccare, ma difficilissime da abbandonare, anche contro le migliori intenzioni.
Adelio Ferrero
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005 
 

Los infortunios de la inocencia

“El vacío es como un espejo delante de mí”, dice el personaje de Max Von Sydow en El séptimo sello de Ingmar Bergman. Adriana (Stefania Sandrelli), la protagonista de Io la conoscevo bene (Yo la conocía bien), nunca diría una frase como esta, pero el director de la película, Antonio Pietrangeli, utiliza a menudo el recurso de los espejos para expresar visualmente esa sensación, para abrirse a la subjetividad de la protagonista en medio de la descripción objetiva del mundo en que se desenvuelve.
La película tiene una estructura muy moderna, fragmentaria, acorde con la forma que tiene Adriana de dirigir su vida; está formada por episodios inconexos, que en su mayor parte se adscriben al género de la picaresca, cuyas raíces más profundas están en autores como Petronio o Marcial, que parecen contemporáneos nuestros; sin ir tan lejos, y en el ámbito de aquellos años dorados del cine italiano (que coincidieron también con los de la canción popular), la película surge en un paisaje de fondo en el que convivían, entre otras muchas especies, las sátiras trascendentales o plebeyas (La dolce vita, Il sorpasso, Risate di gioia), la estilización de lo popular de Pasolini o De Seta, las elegías juveniles de Zurlini y los frisos existencialistas de Antonioni; en mundos muy distantes, y al margen de las diferencias de sus destinos, Adriana tiene una antepasada en Thymian (Louise Brooks), la protagonista de Tres páginas de un diario de Pabst. En oposición a esta, o la Cabiria de Fellini, o la Romy Scheneider de Il lavoro de Visconti, Adriana nunca cae en la prostitución, del mismo modo que la película rehúye la tentación de lo sentimental, de la denuncia fácil y reconfortante.

La película de Pietrangeli oscila insensiblemente entre lo objetivo (la comedia de costumbres) y lo subjetivo (el drama moralista); a medida que transcurre comprendemos que su motivo es la tristeza de vivir, y de forma específica la tristeza de la juventud, que se expresa en forma de movimiento perpetuo: el mundo se divide en desaprensivos y desgraciados, y su metáfora es la cancha de boxeo (aquí instalada dentro de un teatro de ópera), en la que la estrategia para no recibir una paliza consiste en elegir a un contrincante más débil. No estamos lejos de las peripecias de algunas heroínas de Sade, aunque aquí no hay tesis aparente, y la búsqueda del detalle verista prima sobre lo discursivo.

Adriana nunca recurre a estos juegos de poder, y no porque sea incapaz de planificar su vida más allá de sus impulsos primarios –que se revelan a través de decisiones instintivas, visiones instantáneas, recuerdos cuyos detalles no se explican; o mediante recursos formales, como el giro de la cámara en la escena en que asiste a una clase de interpretación dramática (que parece al principio un divertimento vanguardista del director ante una repetición incesante, pero culmina con el desmayo de Adriana, que descubre que está embarazada), o el enfático final. Simplemente, ella carece por completo de ambición.

La imperfección de la película contribuye a hacerla viva, llena de riesgo, de decisiones instintivas, visiones instantáneas… Es significativa, tratándose de Italia, la ausencia de la religión; salvo en la referencia a la trágica historia de la hermana, esta solo se hace visible como trasfondo, en la arquitectura de las iglesias –como en el bello plano nocturno de Adriana ante la fachada del duomo de Orvieto, que sirve como contraste de la fealdad cotidiana que la rodea. La película no condena el vacío y la gratuidad de la existencia de Adriana (que se resume en la descripción artificiosa que hace de ella el escritor, Joachim Fuchsberger, un personaje que parece escapado de una película de Antonioni, y también en la canción de Sergio Endrigo Mani bucate), sino a ese mundo que la rodea, en el que no hay lugar para la inocencia
https://navegandohaciamoonfleet.wordpress.com/2018/04/28/io-la-conoscevo-bene-antonio-pietrangeli/


Tessere di un puzzle, frammenti di uno specchio andato in pezzi: Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli è il frutto di un raffinato lavoro di composizione, opera tipicamente pura in quanto capace di parlare da sé, come un testo che si fa leggere disvelando ogni volta un significato diverso, una porta su un senso ultimo di ri-definibile esplicitazione.
C’è un’unità di fondo in quest’operazione di scrittura per il cinema, sebbene ogni singolo fotogramma e cambio di prospettiva si pongano come implacabili tentativi di diffrazione, quasi a rimarcare l’utilità di un’operazione complessa eppure – al tempo della storia – strettamente necessaria.

Una spiazzante quotidianità
La vicenda di Adriana (Stefania Sandrelli), giovane pistoiese approdata a Roma nella speranza di sfondare nel cinema è, in termini di pura trama, un racconto di spiazzante quotidianità. Non suscitano scalpore le sue ingloriose peripezie e gli ingenui incontri d’amore mancato appaiono piuttosto un residuo melodrammatico, stilemi di «narrativa minore»[1] adattati a un discorso di nausea dell’esistenza.
Eppure l’indicibile sinossi con la sua impossibilità di traduzione all’infuori del confine filmico è, nell’opera di Pietrangeli, caratteristica funzionale alla messa in scena di una storia che si consuma in un tempo incerto, storicamente e narrativamente sfuggente.

Il tempo sospeso
Gli anni Sessanta in cui la vicenda si colloca vengono rivelati, in uno sfacciato gioco di deduzione, da una serie di dettagli che costellano l’opera sin dal suo inizio, quando Adriana dopo aver preso il sole in spiaggia si dirige ridente verso un negozio da parrucchiera, non prima di aver chiesto a un uomo di allacciarle il costume e aver flirtato, con maliziosa ingenuità, con un altro passante che l’annaffia per strada.
Il cambio sequenza mostra l’improvvisa rottura di una boccetta di smalto quando un flashback, rapido e spiazzante, restituisce Adriana alle prese con un’altra caduta, quella di una bottiglia di vetro che le scivola dalle mani mentre è impegnata a respingere l’assalto di un rozzo spasimante.

Fragilità e visione parziale
Non c’è, né qui né altrove, alcun riferimento concreto all’effettiva durata della storia e il contesto, pur se volutamente riconoscibile, è racchiuso nello spazio di una narrazione sospesa, che procede per segmenti brevi legati tra loro eppure fortemente autonomi, tanto da indurre lo spettatore a ricercare – se mai lo volesse – il valore “d’inizio” di ciascun tratto, tessera imprescindibile ma non cronologicamente ordinata del mosaico esistenziale della protagonista.
Il duplice richiamo al vetro infranto, tra l’altro, racchiude in sé un senso ben più profondo della semplice corrispondenza costruttiva; come un recipiente che si rompe, Adriana è un oggetto fragile destinato a spezzarsi, mentre le schegge delle sua vita narrata e ri-vissuta si pongono come strumenti di una visione parziale, ognuno portatore di uno sguardo diverso e drammaticamente esterno.

I volti di Adriana
In tal senso, pertanto, ha valore parlare – come in apertura di articolo – di frammenti di uno specchio andati in pezzi, tanto più che Pietrangeli confeziona una delle ultime, feroci sequenze, come una panoramica sul volto di Adriana, seduta davanti a uno specchio che le restituisce l’immagine moltiplicata per tre, secondo diversi primi piani che rappresentano le sfaccettature della sua personalità, appiattita dagli altri e apparentemente «senza interiorità»[2].
La prospettiva che ogni ritaglio del film restituisce è quella, sempre manchevole e rivedibile, di una protagonista approcciata mediante gli occhi di un personaggio altro, che quasi nella totalità dei casi è un individuo di sesso maschile: fidanzati squattrinati e uomini di successo, un agente spietato e – nello spezzone più tragico – uno scrittore insensibilmente schietto.

Sguardo maschile e contraddizioni del “boom”
Dai loro sguardi – sapientemente introiettati dalle colleghe-maschere di Adriana e dall’amica a cui racconta dell’aborto – emerge una descrizione della ragazza come soggetto “appendicolare”, preda facile e agevolmente domabile perché calata con precisione nel desiderio del suo tempo, quello di un’epoca di repentine trasformazioni in cui il nuovo ciclo di produzione e i bisogni indotti dal “boom” non fanno in tempo a innestarsi con grazia sul tronco tradizionale della società contadina.
Il mondo in cui Adriana s’immerge è popolato da cinici cacciatori di denaro, crassi viveur pronti a tutto pur di guadagnarsi un posto in società: lo testimonia Paolo (Nino Manfredi) col suo suggerimento di posare nuda per attirare i registi, e lo rimarca soprattutto Bagini (Ugo Tognazzi), laido “caratterista” costretto a divertire una disumana platea di attori e stelline.

La critica alla società dei consumi
Quando Adriana è con questi personaggi il suo carattere, per ammissione dello stesso Pietrangeli, è ingenuamente e spontaneamente «riposante» («Le va tutto bene. Dove la mettono resta. Dove la portano va»[3]) ma non c’è dubbio che, nel raccogliere insieme i frammenti dello specchio, il regista sappia bene come illuminarli.
L’impietosa critica da lui avanzata, sotto la superficie, alla società del “miracolo”, dello scambio e del profitto restituisce infatti, in controluce, una sincera tenerezza per la sua giovane e isolata protagonista.

Estraneità di Adriana
Come la costruzione, che procede per tappe interagenti e intimamente connesse, così i contenuti della pellicola si affiancano e moltiplicano in un testo infinito, i cui livelli di lettura non cessano di aprire porte a interpretazioni che conducono tutte a un punto centrale: l’estraneità di Adriana a un sistema di cui si crede – e appare – parte.
Di contro alla vacuità che la perdita dei valori tradizionali porta con sé (in alcune sequenze la giovane è mostrata nella sua casa paterna in campagna, con un fratello malato e una sorella che si sa suora), la protagonista di Io la conoscevo bene mostra un candore d’animo quasi naïf, incredibilmente fuori posto in una società che pure la sfrutta per la sua attitudine alle tenerezze.

Un soggetto imprevisto
Innamorata senza interessi, disposta a concedersi nell’incapacità di sfruttare la propria avvenenza, la ragazza – personaggio tragico – è, in tale ottica, persino un soggetto autonomo o meglio imprevisto, secondo la definizione di Carla Lonzi ripresa con pertinenza da Lucia Cardone[4].
Le relazioni affettive che Adriana coltiva ne fanno un’inconsapevole antesignana della rivoluzione sessuale iniziata col Sessantotto – beffardamente anno di morte di Pietrangeli che avrà nel figlio Paolo il suo principale cantore.

«Io la conoscevo bene»: tra femminismo e utopia
Soltanto anni dopo, tuttavia, le donne prenderanno coscienza dell’enorme peso scaricato dalla sessualità libera sulle loro coscienze e spalle. Tenute a soddisfare i loro uomini nonostante il mutamento dei ruoli, le femministe lavoreranno moltissimo su una visione del sesso svincolata dalla funzione patriarcale di riproduzione e servizio.

Adriana Astarelli, in questo senso, precorre involontariamente i tempi di una riflessione a venire, e non è un caso che il suo ritratto più dolcemente veritiero emerga nella gratuità degli incontri con il pugile sconfitto e il garagista del suo stabile.

Indimenticabile figura della filmografia del Novecento, questa giovane fuori dalla norma conclude il suo viaggio gettandosi dalla finestra, in un ultimo estremo atto di desuetudine. Che sia un gesto di disperazione o ribellione non è dato saperlo, e in fondo ai fini del racconto non costituisce necessità. Il finale è soltanto una scheggia di un corpo sfrangiato, l’ennesimo frammento di specchio da raccogliere in pezzi.

Note:
[1] P. Bianchi, Io la conoscevo bene, in “Il Giorno”, 2 dicembre 1965.
[2] R. De Gaetano, Il romanzesco di Io la conoscevo bene, in “Fata Morgana Web”, 28 gennaio 2019.
[3] A. Pietrangeli, Il secondo soggetto, in L. Miccichè (a cura di), Io la conoscevo bene. Infelicità senza dramma, Torino, Lindau, 1999, p. 87.
[4] L. Cardone, Donne impreviste. Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie”, 5, 2014, p. 23.
Ginevra Amadio
https://www.npcmagazine.it/io-la-conoscevo-bene-pietrangeli/