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viernes, 12 de agosto de 2011

Serafino - Pietro Germi (1968)


TÍTULO Serafino
AÑO 1968 
SUBTITULOS No
DURACIÓN 96 min.
DIRECTOR Pietro Germi
GUIÓN Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Pietro Germi, Alfredo Giannetti
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Aiace Parolin
REPARTO Adriano Celentano, Ottavia Piccolo, Saro Urzì, Francesca Romana Coluzzi, Benjamin Lev, Nazzareno Natale, Giosue Ippolito, Ermelinda De Felice, Nerina Montagnani, Luciana Turina, Amedeo Trilli, Orlando D'Ubaldo
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Francoriz Production / RPA Rizzoli Film
PREMIOS 1969: Moscú: Premio de Oro
GÉNERO Comedia

SINOPSIS Serafino un pastor joven e inocente hereda una enorme fortuna. Inmediatamente gasta la suma de todo en regalos a sus amigos. Por esta razón se cree que está loco, y su tío decide prohibir legalmente que tome cualquier decisión acerca de su fortuna. Cansado de esta situación, Serafino decide finalmente volver a las montañas con sus ovejas. (FILMAFFINITY)



Gli uomini vanno sulla Luna, la cibernetica trasforma le macchine in uomini, la scienza corre più delle macchine-uomini che vanno sulla Luna e in questa corsa vertiginosa di tutto e di tutti verso l’ormai tanto vicino Duemila, anche le arti fanno a gara per non restare indietro, pur denunciando spesso, in questa loro affannosa e precipitosa evoluzione, disordine, squilibri, fratture. Tutte le arti e, quindi, anche il cinema che, soprattutto da qualche tempo, si è messo a correre più degli altri inventando nuove tecniche, nuovi linguaggi, nuovi temi. Nonostante questo Pietro Germi, con Serafino, ci porta intenzionalmente lontano dall’ansiosa cronaca contemporanea, isolandosi quasi fuori del tempo, in montagna, in mezzo ai pastori, a riscoprire, se non proprio l’Arcadia, almeno un costume, delle abitudini, delle facce umane su cui la società di oggi non ha fatto presa. Pastori isolati sui monti, con le loro pecore, preoccupati solo, in estate, di trovare buoni pascoli, e preoccupati solo, in inverno, di tirare avanti alla meglio nei loro paesini di sassi, arroccati tra le rocce, avendo come unica aspirazione, come unico paradiso, una donna facile, un bicchiere di vino, una stornellata a suon di fisarmonica. Serafino è il tipico rappresentante di questa gente. Una volta, di lui si sarebbe detto: “scarpe grosse e cervello fino”, anche se, per capire che ha il cervello fino, bisogna conoscerlo a fondo; in superficie, infatti, sembra un “innocente del villaggio”, un povero di spirito, un giovanottone senza alcuna luce nella mente e con concezioni quasi animalesche dell’esistenza. Così, difatti lo giudicano i medici militari che, dopo aver assistito impotenti alle sue stravaganze campagnole e ai suoi accigliati scontri con la “civiltà” delle caserme cittadine, lo rispediscono d’urgenza, con tanto di riforma per motivi psichici, alle sue pecore. E così lo giudicano anche i suoi stessi consanguinei, campagnoli come lui, pastori come lui, quando, vedendolo incoscientemente sperperare un’improvvisa eredità che era toccata a lui anziché a loro, si precipitano a farlo interdire per poter mettere le mani sulle proprietà e i denari che a loro erano sfuggiti. Serafino, invece, non è affatto da interdire, perché non è né un matto né uno sciocco, è solo un’anima semplice e un po’ candida che, in città, non può andare d’accordo con il mondo che conosciamo noi e che, in montagna, non può andare d’accordo con quel mondo agreste e rurale che non conosciamo, ma che, pur essendo lontano dalla nostra civiltà, ne conosce e ne ha fatto proprie l’aridità, l’avidità, la cupidigia di denaro; è un innocente sul serio, insomma, che ama tutto e tutti, che non conosce né le buone regole e neppure le leggi più comuni, ma che, pur essendo anche dotato di molta furbizia contadina non farebbe del male a nessuno perché, anzi,vuol solo fare un po’ di bene ovunque gli capiti. Anche quando, alla fine, dopo esser sfuggito all’amore pericoloso di una giovane parente che, in definitiva, mirava solo a carpirgli la contesa eredità, si sposa una donna di pessima reputazione cui non osa nemmeno chiedere di mutar vita; perché per lui tutto è accettabile. Un personaggio, dunque, che non somiglia a niente di quello che il cinema attualmente ci propone. Germi, in questi anni, ce lo aveva lasciato presagire allontanandosi sempre di più dalle cornici cittadine per studiare sempre più da vicino la vita di provincia.



Disgustato dalle città, però, anche in provincia non era parso trovare niente che lo soddisfacesse sul serio, tanto che pochi film come Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, Signore e Signori possono esser considerati tra le caricature più sferzanti della mentalità provinciale italiana. Anche qui si sferza, si punge, addirittura si graffia, perché anche qui c’è quel gruppo avido e cinico dei parenti di Serafino solo preoccupati del denaro e delle proprietà, ma l’accento non è sulle grettezze, sulle cupidigie, sulle torve bramosie di questo coro di cattivi, è soltanto sulla furbesca ingenuità di Serafino proposta in un clima di facezie aspre e di bravate che, a volte, pretenderebbe raggiunger quasi il tono della favola. Questa ruvida favola, però, colorata da troppo naturalistiche tinte ottocentesche e commentata da musiche popolaresche fino alla stornellata, suscita in molti luoghi, sul piano dello stile, moltissime perplessità. Quel racconto, infatti, sempre gridato ed urlato, quella gente rozza e litigiosa in perpetuo movimento, quel gracile susseguirsi di fatti in genere narrativamente molto più abbozzati che non risolti, quei personaggi che, ad eccezione del protagonista, svelano molto più delle semplici facce che non delle psicologie, lasciano troppo spesso insoddisfatti e, qua e là, persino infastiditi. Anche in tanto realismo si vorrebbe più misura, più calma; tutto quel vociare potrebbe essere ricondotto a più accettabili equilibri sonori e in quell’azione così tenue ma composita si gradirebbe una maggiore unità logica e stilistica, una più severa ricerca della discrezione; senza contare che, in taluni momenti, il tono di ballata paesana, gli stornelli cantati dai pastori, il bozzetto di vita agreste, per voler essere puntigliosamente controcorrente, fuori dal tempo, finiscono soltanto per riproporre, in chiave meno nobile, esempi notissimi di un cinema fiorito in un tempo ormai lontano (Due soldi di speranza, di Renato Castellani; Giorni d’amore, di Giuseppe De Santis). Germi è troppo personale per aver paura dei paragoni ed è troppo sicuro di sé per temere di sentirsi isolato in un cinema che, ormai, sembra ignorare del tutto i temi su cui egli insiste; questa volta, però, ha prestato il fianco al dissenso in modo troppo scoperto e, diciamolo pure, sbagliato. La sua “vacanza in montagna” perciò, fra pastori scurrili, grossolani e un po’ tonti, deve essere in buona parte respinta; e là dove la si può accettare, va accolta, sul piano del gusto, con parecchie, decise riserve. Le stesse riserve valgono per il protagonista, Adriano Celentano, irruente, spavaldo, forastico quel tanto che il personaggio richiedeva, ma difficilmente credibile, per gli echi lombardi della sua parlata, nei chiusi accenti ciociaro–abruzzesi del dialetto con cui deve esprimersi. Più vero e concreto Saro Urzì nel personaggio quasi truce del capo-coro dei cattivi.
Gian Luigi Rondi – Il Tempo
http://sportcinema.myblog.it/archive/2009/05/24/fc-001-%E2%80%93-recensione-e-videoclip-serafino-1968-di-pietro-ger.html

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