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viernes, 4 de enero de 2013

Abuna Messias - Goffredo Alessandrini (1939)


TÍTULO ORIGINAL Abuna Messias
AÑO 1939
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 93 min.
DIRECCION Goffredo Alessandrini
ARGUMENTO padre Callisto V. Vanzin, Luigi Bernardi
GUION Goffredo Alessandrini, Vittorio Cottafavi, Domenico Meccoli
FOTOGRAFIA Aldo Tonti, Renato Del Frate
MONTAJE Giorgio C. Simonelli
ESCENOGRAFIA Y VESTUARIO Carlo G. Pouchain, Guido Presepi
MUSICA Mauro Gaudiosi
REPARTO Camillo Pilotto, Enrico Glori, Mario Ferrari, Amedeo Trilli, Berché Zaitù Teclè, Ippolito Silvestri, Francesco Sala, Roberto Pasetti, Corrado Racca, Michael, Abd-el-Uad, Enzo Turco. 
PRODUCTORA Alessandro F. Gagna para Romana Editrice Film (R.E.F.)
PREMIOS 1939: Venecia: León de oro 
GÉNERO Drama. Bélico | Religión. África 

SINOPSIS Verso la fine dell'Ottocento, il cardinale Guglielmo Massaia (Camillo Pilotto) si reca per la seconda volta in Etiopia e stringe amicizia con il re Menelik (Enrico Glori), provocando dure reazioni da parte del capo della chiesa copta, Abuna Atanasio (Mario Ferrari). Ispirato alla vera storia del cardinale Massaia.



Abuna messias, girato nel 1939 dal cairota Goffredo Alessandrini, è un biopic romanzato del cardinale Guglielmo Massaia, missionario in Etiopia dal 1846 al 1879: il film ricostruisce in particolare il secondo dei tre soggiorni, terminando con la sua cacciata da parte del re Johannes IV. Terribilmente datato nell’impianto della messinscena, profondamente discutibile nei modi di rappresentazione del paesaggio politico e antropico locale, il film può essere utilmente rivisto e reintepretato in chiave postcoloniale, sulla base delle puntuali scelte compiute dai suoi produttori e autori, ma anche come controprova di un oggettivo sostegno offerto dalla chiesa alla campagna d’Etiopia, sul piano della politica culturale.
Nel film, scritto da Alessandrini con la partecipazione tra gli altri di Vittorio Cottafavi, Massaia (Camillo Pilotto) – chiamato familiarmente Abuna Messias dalle popolazioni locali – torna in Etiopia preceduto dalla sua fama ma accompagnato solo dall’anziano padre Leone (Roberto Pasetti). Turbato dal passaggio di una carovana di schiavi, ne riscatta uno ridotto a malpartito, Morka (l’indigeno Michael), che rimane al suo servizio, pagandolo con una medaglia datagli da Cavour. L’arrivo di Massaia preoccupa a tal punto il capo della chiesa copta locale, Abuna Atanasio (Mario Ferrari, in blackface) da spingerlo a pagare il mediatore di schiavi musulmano Abu Beker (Abd El Uad, doppiato da Mario Besesti) perché liquidi con i suoi sgherri il missionario. Sennonché nel frattempo sopraggiunge una scorta inviatagli dal re dello Scioà Menelik (Enrico Gori, anche lui in blackface), che lo riceve con grandi onori a corte, accogliendolo come suo consigliere.
Fra le molte pretendenti al titolo di regina, c’è l’altera principessa galla Alem (Berchè Zaitù Taclè, doppiata da Giovanna Scotto). La donna spera proprio nell’intercessione del missionario per farsi sposare ma il missionario si mostra diplomaticamente comprensivo nei confronti del volubile re. Prima di lasciarlo partire in missione, in un appezzamento che gli mette a disposizione, Menelik chiede esplicitamente a Massaia una mediazione con il governo italiano perché intervenga militarmente a suo favore («Senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini»), ma il prete nicchia, dicendogli che ad opporsi è soprattutto un parlamento diviso («se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta») e annunciando tuttavia una promettente spedizione geografica. Nel territorio assegnatogli, Massaia scopre un villaggio decimato dal vaiolo, allontana il santone locale e organizza su due piedi un ospedale.
Mentre Massaia conquista la fiducia degli indigeni, risanando gli abitanti del villaggio, Abuna Attanasio moltiplica gli sforzi per contrastare l’influenza, arrivando a convocare un’imponente adunata di fedeli per scomunicare i seguaci di Massaia. Dopo aver tentato inutilmente di screditarlo, agli occhi di Menelik, si rivolge direttamente al negus Johannes IV (Ippolito Silvestri), sobillandolo contro Menelik, accusato di mirare a usare l’aiuto degli europei per impadronirsi del suo trono, ed esortandolo a schiacciarne la ribellione e a scacciare il missionario dallo Scioa. Mentre Menelik fonda attorno al villaggio risanato la città di Addis Abeba (nuovo fiore in amarico), sopraggiunge un messaggero di Johannes IV ma Menelik si rifiuta di accettare le sue imposizioni e si va alla guerra. Grazie all’appoggio dei cavalieri galla, Johannes si assicura la supremazia in campo. Inutilmente Massaia propone sia a Menelik che a Johannes di farsi da parte per impedire la guerra. Sconfitto, Menelik è costretto ad accettare le condizioni, espellendo Massaia e promettendo di osteggiarne la religione. Il vecchio Abuna Messias lascia il paese ma si lascia dietro il giovane Morka, che nel frattempo ha ordinato sacerdote, per continuare la sua missione.
Sul piano dei modi di espressione, in Abuna messias, Alessandrini conferma una padronanza registica che pochi altri registi del Ventennio possedevano. Lo si evidenzia soprattutto nella gestione delle numerose scene di massa, all’aperto e ad alto impatto spettacolare, girate sul posto con l’ausilio di migliaia di comparse: dall’adunata dei fedeli copti alla corte di Johannes alla guerra fra i due eserciti. Nelle scene d’interni, domina invece una cinepresa più mobile ed elegante, e se la fotografia di Aldo Tonti (che tre anni dopo curerà le luci di Ossessione) assume tonalità contrastate ed espressive, la cura del décor richiama un gusto del dettaglio tipico dei film esotico-coloniali (penso per esempio alla ricorrenza di gatti selvatici nella reggia di Menelik, elemento figurativo che richiama alla memoria la corte di Sofonisba in Cabiria e quella di Antinea in L’Atlantide di Feyder). Ma a gravare sull’insieme, di questo come di altri pseudokolossal coloniali come Scipione l’africano c’è la matrice estetica magniloquente e stantia del filone storico-epico.
Nello stesso immaginario possiamo inquadrare i modi di rappresentazione del contesto, quello di un paese pre-coloniale che, come tale, appare diviso tra leader locali litigiosi e ambiziosi, necessitando l’intervento unificante e pacificatore di una guida esterna. Colpisce, nello specifico, in un film prodotto da una società vicina al Vaticano, diretta da Don Alberione, l’identificazione del ruolo simbolico di antagonista non nel potere politico ma in quello religioso, della chiesa copta, incarnata dall’infido e potente Abuna Attanasio, la cui perfidia morale è sottolineata oltremodo da un lieve handicap (ha un occhio ricoperto da una benda). Registrata la pratica, allora di uso comune, di usare per i ruoli principali di personaggi neri attori bianchi in blackface (facendoli recitare in italiano, ça va sans dire), vanno riconosciute alcune aperture di segno documentale che contrastano con la visione dominante, di segno imperialista e razzista. Se l’indigeno buono Morka, come da stereotipo del genere, in tutto il film non fa che annuire ai discorsi di Massaia, senza pronunciare una sola parola, non così la principessa Alem, una sorta di femme fatale in salsa zighinì, che occupa una zona consistente dell’intreccio, ritagliandosi un ruolo di donna fiera e risoluta, sia pur filtrato dalla griglia ideologica e sessista d’insieme.
Ma a rimanere impressa è, dicevamo, la componente indirettamente documentale dello sguardo, inclusivo, di Alessandrini, che ingloba nella messinscena brani di cerimonie religiose e danze e musiche tradizionali (come la sessione di ballo iskista con accompagnamento di violini masenko che segue il banchetto di Menelik in onore di Massaia) e persino una scena dialogata in amarico (con l’Abuna Attanasio che risponde in italiano agli altri capi religiosi, che si esprimono in lingua). Passaggi che non inficiano né indeboliscono la portata ideologica d’insieme, con un discorso che insiste nel giustificare retrospettivamente - il film è ambientato negli anni antecedenti all’occupazione del porto di Massaua del 1884 - l’espansione coloniale italiana in Africa orientale. Colpisce, ma qui la questione si fa spinosa e complessa, come il primo film finanziato dalla società delle Paoline – quella di don Giacomo Alberione, qui Romana Editrice Film, più avanti San Paolo –, destinata ad altri exploit (come il primo film a colori, Mater dei, nel 1950) sia un film così scopertamente compromesso con il regime e convintamente sostenitore delle sue imprese coloniali.
In occasione del bicentenario della morte di Massaia, avvenuta nel 2009, si sono tenute numerose celebrazioni in tutta Italia: in varie occasioni, per esempio al Museo del Cinema di Torino, è stata presentata la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film di Alessandrini. È davvero poco comprensibile, da parte della San Paolo, la scelta di uscire con questa edizione, fuori tempo massimo per le celebrazioni in questione (ma questo poco ci tocca), e soprattutto con una copia che porta tutto il peso dei suoi anni, da un master in condizioni mediocri, pieno di graffi, spuntinature e salti anche nel sonoro. L’edizione, inoltre, è priva di extra. L’importanza dell’uscita rimane invece notevole per gli storici che lavorano con i nuovi media e, più in generale, per quanti vogliono fare i conti con il rimosso passato coloniale italiano (e l’azione di sponda offerta al fascismo dal Vaticano, anche su questo versante).
Leonardo De Franceschi
http://www.cinemafrica.org/spip.php?article989
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Il missionario, che eroe!
La figura del missionario è stata tratteggiata in diversi film, dove ricorrono alcuni cliché che a volte ne rendono un'immagine stereotipata. Lino Ferracin, esperto di cinema e autore di molte pubblicazioni, da anni cura le presentazioni di film ad alto valore interculturale sulle pagine di "CEM Mondialità". In questa panoramica ci offre un'interessante analisi dei temi affrontati e una scelta critica delle principali pellicole che hanno per protagonisti il missionario e la missione.

Lino Ferracin
Diversamente da quanto istintivamente valutavo, non sono molti i film, prodotti per il grande pubblico, che nella storia del cinema sono stati dedicati alla figura di un missionario.
Intendo quello che parte dall'Occidente cristiano e civilizzato per portare a popoli lontani la parola del Signore, non ci interessano cioè tutte quelle altre storie ambientate in periferie malfamate, in carceri violenti, in agnostici salotti borghesi o in fabbriche senza Dio; non si parla di sacerdoti o pastori in missione qui ma di missionari al lavoro là.
Una quindicina? Pochi pare, perché un film, che abbia come protagonista un missionario o che ricostruisca una vicenda legata alla presenza di missionari in terre lontane, è facile e allettante, infatti le qualità e la storia di chi parte per annunciare Cristo sono naturalmente cinematografiche e l'idea romantica che il pubblico ha del missionario ben si adatta alla più classica delle sceneggiature.

La figura del missionario-eroe
Al centro di un buon film di massa deve esserci un eroe in una situazione difficile e il missionario è un personaggio che può avere tutte le caratteristiche di un eroe. Ha una fede per cui è disposto a morire, non ha paura di lasciare agiatezze e sicurezze per buttarsi verso l'ignoto; è solitamente solo a guardare dalla tolda di una nave il mare immenso o a cercare dall'alto di un dirupo tracce lontane di anime da convertire; è "uno" in mezzo a molti, lontano dalla patria e dai suoi cari, disarmato in mezzo a nemici spesso fanatici. Di lui conosciamo le motivazioni del suo fare, del suo partire, del suo rischiare. Alle spalle lascia storie di affetti e sentimenti: genitori e parenti lontani, a volte amori giovanili; con sé porta amore per gli altri, odio per lo sfruttamento e la schiavitù materiale o morale. È per definizione dalla parte del bene; Dio è con lui e anche la sconfitta è vittoria nel Regno dei Cieli.
La vicenda di un'esperienza missionaria è già quasi scritta: vi è una partenza, variamente motivabile, vi è un viaggio di avvicinamento, a volte difficile e pericoloso, vi è un incontro con l'altro, a cui seguono difficoltà di comprensione e accettazione, affrontate con l'arma della bontà e del sacrificio. C'è poi l'accoglienza e la fondazione di una nuova piccola società positiva e aperta al futuro, che saprà affrontare i problemi che verranno perché la speranza è molto più di un sogno. Se invece vi è sconfitta, affrontata con coraggio ed eroismo fino al martirio, questa non dipende dal nostro eroe ma è opera dell'"altro", selvaggio violento, nemico della fede, o potente egoista.
Sul piano degli ideali il nostro eroe non è partito per i potenti, che generalmente lo vedono con diffidenza e lo rifiutano appena si accorgono che il suo fare e il suo stile di vita mettono in discussione il loro potere, ma per la sua gente, i più deboli, i più poveri, i rifiutati.
Le sue armi sono la fede, la tenacia, la capacità di ascolto, la forza delle sue scelte.
L'ambiente dove il missionario opera è, naturalmente esotico bellissimo, e se al contrario è difficile, povero o al limite dell'inumano, comunque ha la forza di attrazione del lontano e del diverso. Essendo inoltre le vicende della diffusione del cristianesimo spesso legate ad avvenimenti storici decisivi per i popoli e le nazioni che per prime accolsero i missionari, la possibilità di inserire le vicende missionarie nella Storia e di poterle in qualche modo adattare o piegare a motivazioni ideologiche, non importa se lontane dal messaggio evangelico, facilita la programmazione di pellicole per il grande pubblico.
Insomma gli ingredienti ci sono tutti per un bel film di avventura con buone possibilità di cassetta.

Il rischio dello stereotipo
Il rischio, dopo quanto detto sopra, è che il fatto missionario, l'essenza di quella storia che l'ha fondato e lo sostiene, rimanga di pura superficie o talmente stereotipata da risultare accessoria.
Ne vogliamo una prova? Riguardiamo Abuna Messias di Alessandrini, vincitore della Coppa Mussolini come Miglior Film alla Mostra di Venezia del 1939. Il film, anche se voluto da don Alberione con la collaborazione dei Cappuccini del Piemonte, relega in secondo piano la figura del Cardinal Massaia, le cui vicende sembrano essere solo occasione per la propaganda e il sostegno, con motivazioni di civiltà anche religiosa, di una politica di espansione coloniale. Tema centrale del film non è tanto l'opera del missionario Massaia quanto l'invidia per la sua opera e i giochi di potere attorno alla sua missione: la nazione etiopica è presentata sotto cattiva luce, essendo infatti governata da uomini interessati solo al potere e a prevalere sugli altri, anche il capo della Chiesa copta è connotato in modo fortemente negativo. Che il film mostri qualcosa di diverso rispetto al soggetto suggerito dal titolo è colto subito dall'inviato del Corriere della Sera a Venezia. Leggiamo infatti nel numero del 1° settembre 1939: "Peccato che sia andata sacrificata la figura del padre Massaia, le sue vicende, le sue lotte, la sua vita intima, la vita delle comunità che aveva suscitato con la sua parola, dei compagni che egli aveva guidato con il suo esempio; tal che, alla fine, tutta la sua vita di trent'anni di apostolato pare ridursi per lo spettatore alla consacrazione di un solo prete, alla fondazione di una sola missione e alla guarigione di qualche caso di vaiolo".
Ma il film di Alessandrini non è l'unico nel quale cogliamo una presenza condizionante della propaganda, pensiamo ad esempio ai film degli anni 50/60 ambientati in Cina oppure a Mission, dove si respira una forte contestazione nei riguardi di una Chiesa istituzionale schierata dalla parte dei potenti e, di contro, un deciso schierarsi (militarmente anche) dalla parte degli ultimi, posizione mutuata dalle teologie della liberazione. È naturale che sia così, perché i film respirano l'aria del loro tempo, sono in parte specchio del loro pubblico e sempre hanno uno sguardo ideologicamente condizionato sulla realtà che ricostruiscono e sull'uomo che rappresentano.
Proprio rivedendo i film del nostro elenco ci possiamo accorgere di come negli anni è cambiato l'immaginario sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare e sul suo porsi in relazione con l'altro. Riflettiamo anche solo sul diverso sguardo e spazio che è dato a quelli che sono oggetto della missione, "i selvaggi" sono passati da comparse indistinte o stereotipate dei primi film a comprimari portatori di una identità, orgoglio e appartenenza culturale e di conseguenza da un atteggiamento del missionario di tutto buono/tutto cattivo ad un mettersi prima di tutto in ascolto e in discussione. Certamente è anche cambiato lo sguardo sulle esperienze passate e sulle giustificazioni ideologiche, dal "Dio-lo-vuole" a riflessioni più attente e amare in merito al connubio, inevitabile forse, tra fede e cultura e a quello, obbligatoriamente evitabile, tra crocifisso e spada.
D'altra parte ogni spettatore guarda e vive con sensibilità e reazioni diverse le immagini dello schermo e ha le sue graduatorie e i suoi preferiti. Dalla prima volta ho sempre amato Le chiavi del Paradiso e ancora adesso è sempre il mio preferito, anche dopo la visione di Mission.
Lino Ferracin
http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=i_dossier&dossier=film_e_missione_tra_memoria_e_futuro&idt=227&id_r=60&articolo=il_missionario_che_eroe&id_a=1903


Alessandrini, Goffredo
Regista cinematografico, nato al Cairo (Egitto) il 9 settembre 1904 e morto a Roma il 16 maggio 1978. Tra i più rappresentativi cineasti italiani degli anni Trenta e Quaranta, promosse il filone comico-sentimentale con La segretaria privata (1931) e Seconda B (1934), e quello militare-colonialista con Luciano Serra pilota (1938) e Giarabub (1942). Per i valori che esaltava fu uno dei registi di riferimento del regime fascista, premiato per quattro volte alla Mostra del cinema di Venezia.Figlio di un ingegnere italiano trasferitosi in Egitto, A. apparteneva a una famiglia colta e benestante. Si laureò in architettura, ma sognava una carriera cinematografica e iniziò a girare immagini documentaristiche e spettacolari della costruzione di una diga sul Nilo. Nacque così La diga di Nag Hamadi (noto anche come La diga di Maghmod, 1929), un cortometraggio che nel 1931 gli valse l'assunzione alla Cines-Pittaluga di Roma, dove lavorò prima come assistente alla regia di Alessandro Blasetti (già affiancato in Sole, 1929) sul set di Terra madre (1931), e poi come regista di La segretaria privata ? rifacimento di un film tedesco, Die Privatsekretärin (1931) di Wilhelm Thiele ?, interpretato da Elsa Merlini, Nino Besozzi e Sergio Tofano. Fedele all'originale, senza nascondere gli espliciti riferimenti alla sophisticated comedy e al musical americano, questa ennesima versione del mito di Cenerentola, con la segretaria che alla fine va in sposa al direttore della banca, si contraddistinse per ritmo, interpretazione e décor, ottenendo un largo successo di pubblico e di critica. La notorietà conquistata rimbalzò oltreoceano e A. fu chiamato dalla Metro Goldwyn Mayer alla direzione del doppiaggio in italiano dei film statunitensi, incarico che ricoprì per circa due anni. Al rientro in Italia, nel 1934, incontrò Anna Magnani, con la quale ebbe una relazione tormentata: sposò l'attrice nel 1935 e se ne separò nel 1942. Sempre nel 1934 diresse Seconda B, con Sergio Tofano, Maria Denis e Dina Perbellini. In una Cines profondamente mutata in sua assenza, e distaccandosi dagli intenti dello sceneggiatore (Umberto Barbaro), A. girò così il primo dei film 'collegiali', il cui impianto fu destinato ? nell'ambito del genere commedia ? a essere ripreso sia da Maddalena zero in condotta (1940) diretto da Vittorio De Sica sia da Ore 9: lezione di chimica (1941) di Mario Mattoli. Ma fu soprattutto Cavalleria del 1936 (preceduto da Don Bosco, 1935), significativa rievocazione dell'epoca d'oro della cavalleria militare sabauda, interpretata da Amedeo Nazzari e premiata con la Coppa del Ministero per la stampa e la propaganda, a segnalare un A. ormai maturo, raffinato nelle ricostruzioni della società di fine Ottocento, abile nel dosare eroismo e sentimento, elementi che ricorreranno anche nei film successivi come Luciano Serra pilota e Abuna Messias ? Vendetta africana (quest'ultimo realizzato nel 1939; entrambi vennero premiati con la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia) e anche Giarabub, tre grandi affreschi corali che raccontano rispettivamente le gesta di un pilota, di un cardinale e di un comandante con riferimento, diretto o indiretto, alla guerra d'Africa, prediligendo ora i toni epici e avventurosi, ora quelli intimistici e romantici; sulla linea celebrativa ma non enfatica che era stata già di Una donna tra due mondi (1936) e di La vedova (1939) e che sarà poi dei successivi Il ponte di vetro (1940), Caravaggio ? Il pittore maledetto (1941) e Nozze di sangue (1941).Nel 1942 A. realizzò il film Noi vivi ? Addio Kira, opera monumentale in due parti, premiata anch'essa a Venezia e interpretata da Alida Valli, Rossano Brazzi e Fosco Giachetti. Tratto dal romanzo di A. Rand, alla cui riduzione cinematografica avevano lavorato Orio Vergani e Corrado Alvaro, il film riscosse ampio consenso di pubblico, ma non di critica, la quale non riuscì allora ad apprezzare le sfumature melodrammatiche e la splendida ricostruzione in studio della Russia rivoluzionaria. Infine, tra i film che il regista diresse dal 1943 al 1952 (Lettere al sottotenente, 1945; Chi l'ha visto?, 1945; Furia, 1947; La peccatrice bianca, 1949; Sangue sul sagrato, 1951; e Camicie rosse ? Anita Garibaldi, 1952, con Anna Magnani nella parte di Anita Garibaldi) si distinse L'ebreo errante (1948), ispirato al romanzo di E. Sue e interpretato da Vittorio Gassman. Trasposizione moderna del mito dell'ebreo condannato a errare in eterno, in cui viene affrontato anche il tema della deportazione nazista, per il particolare rilievo dato all'argomento ottenne uno speciale Nastro d'argento.
Negli anni Cinquanta e Sessanta la sua fama volse rapidamente al declino: in due occasioni, durante la lavorazione di Sangue sul sagrato e di Camicie rosse, lasciò che altri (tra cui l'allora esordiente Francesco Rosi) ultimassero le riprese; fece ancora un paio di supervisioni ed ebbe marginali ruoli d'attore in La Celestina P... R... (1965) di Carlo Lizzani e in Latin lover (episodio di I tre volti, 1965), diretto da Franco Indovina. bibliografia
Il cinema italiano dal '30 al '40, a cura di E.C. De Miro et al., Genova 1974, pp. 61-77.
F. Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), Roma 1979, pp. 6-56.
G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 2° vol., Il cinema del regime, Roma 1993², pp. 144-46 e passim, e 3° vol., Dal neorealismo al miracolo economico. 1945-1959, Roma 2000³, passim.
Stefania Carpiceci
http://www.treccani.it/enciclopedia/goffredo-alessandrini_(Enciclopedia_del_Cinema)/

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