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lunes, 22 de abril de 2013

Il cielo cade - Andrea Frazzi e Antonio Frazzi (2000)


TÍTULO ORIGINAL Il cielo cade
AÑO 2000
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Incorporados), Español (Separados)
DURACIÓN 102 min.
DIRECTOR Andrea Frazzi, Antonio Frazzi
GUIÓN The Sky Is Falling (Novela: Lorenza Mazzetti)
MÚSICA Luis Enríquez Bacalov
FOTOGRAFÍA Franco Di Giacomo
REPARTO Isabella Rossellini, Jeroen Krabbé, Barbara Enrichi, Gianna Giachetti, Luciano Virgilio, Azzurra Antonacci, Bruno Vetti, Selene Maltauro
PRODUCTORA Coproducción Italia-Alemania
PREMIOS 1999: Premios David di Donatello: Nominada Mejor ópera prima y actriz (Isabella Rossellini)
GÉNERO Drama | II Guerra Mundial

SINOPSIS En la Italia de 1943, en plena II Guerra Mundial, una niña huérfana es dejada junto a su hermana en casa de unos tíos en la Toscana. Con la amenaza latente del conflicto bélico, la historia se concentra en la relación entre las niñas y sus tutores, especialmente con el tío Wilhelm, un judío alemán primo de Albert Einstein. (FILMAFFINITY)




TRAMA
Estate '44, in una bella villa in Toscana. Penny e sua sorella Baby, restate orfane di padre e madre a causa di un incidente di macchina, vengono condotte presso gli zii, che abitano in campagna. La zia è la sorella della mammma delle bambine ed è sposata con un affascinante intellettuale tedesco, amante della musica e dell'arte. L'intera vicenda del film è vista e raccontata attraverso gli occhi di Penny, la sorellina maggiore. È con lei che faremo la conoscenza del mondo straordinario che si svolge attorno all'isola felice costituita da questa villa e dai suoi stravaganti ospiti, nonché del mondo contadino che alla villa fa capo. Il film narra, infatti, le semplici vicende che si svolgono attorno a questa villa (l'amicizia con i figli dei contadini, la scuola, i problemi religiosi, la presa di coscienza d'una relatà crudele ed ineluttabile, la scoperta dei primi palpiti amorosi, l'amicizia con un dolente Generale Tedesco consapevole e gentile, la fascinazione esercitata dallo Zio Wilhelm (intellettuale ebreo, idealista e paladino di giustizia) dall'estate del '44 fino alla tragica conclusione della guerra, che porteranno all'inutile sacrificio dell'intera famiglia Einstein: la zia e le due cuginette barbaramente massacrate dai tedeschi in fuga, cui seguirà l'inevitabile suicidio dello zio.

SINOSSI
Il libro di Lorenza Mazzetti (Premio Viareggio 1967) da cui è liberamente tratta la storia del film è ispirato alla sua dolorosa esperienza privata di bambina. La figura dello "zio Wilhem", cui il suo libro è sentimentalmente dedicato, adombra quella dello zio, Alfred Einstein, cugino primo del più famoso Albert, che fu protagonista della vicenda raccontata.
Estate '44, in una bella villa in Toscana.
Penny e sua sorella Baby, restate orfane di padre e madre a causa di un incidente di macchina, vengono condotte presso gli zii, che abitano in campagna. La zia e la sorella della mamma delle bambine è sposata con un affascinante intellettuale tedesco, amante della musica e dell'arte.
L'intera vicenda del film è vista e raccontata attraverso gli occhi di Penny, la sorellina maggiore.
E' con lei che faremo la conoscenza del mondo straordinario che si svolge attorno all'isola felice costituita da questa villa e dai suoi stravaganti ospiti, nonché del mondo contadino che alla villa fa capo. Il film narra infatti, le semplici vicende che si svolgono attorno a questa villa (l'amicizia con i figli dei contadini, la scuola, i problemi religiosi, la presa di coscienza d'una realtà crudele ed ineluttabile, la scoperta dei primi palpiti amorosi, l'amicizia con un dolente intellettuale ebreo, idealista e paladino di giustizia) dall'estate del '44 fino alla tragica conclusione della guerra, che porteranno all'inutile sacrificio della famiglia Einstein: la zia e le due cuginette barbaramente massacrate dai tedeschi in fuga, cui seguirà l'inevitabile suicidio dello zio.

CRITICA
Fra i fondatori del Free Cinema con Lindsay Anderson e regista di un'opera prima, "Together", premiata a Cannes nel '56, Lorenza Mazzetti scrisse nel '61 l'autobiografico "Il cielo cade" (editato da Sellerio) sull'onda di ricordi riaffiorati con improvvisa prepotenza. Rimasta orfana di entrambi i genitori, la piccola Lorenza fu affidata con la sorellina alle cure della zia Nina sposata a Robert Einstein, cugino dello scienziato; e accolte come figlie, le due bambine vissero nella villa sui colli fiorentini dei civilissimi parenti una breve stagione di serenità, conclusasi in un massacro a opera delle SS nell'agosto '44.
Entusiasta del libro, la sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico ebbe subito l'idea di adattarlo per lo schermo, ma il progetto non andò in porto come spesso succede nel cinema. Oggi che per la regia dei fratelli Andrea e Antonio Frazzi il film è stato realizzato, la prospettiva storica aggiunge alla vicenda un tono di nostalgico epicedio: c'era una volta un mondo di valori morali e di bellezza, ora non c'è più, travolto e distrutto per sempre. Del romanzo, raccontato in prima persona con i nomi dei protagonisti cambiati, la sceneggiatura recupera la freschezza impressionista con cui sono fissate le immagini di un'infanzia presaga e insieme ignara che il cielo è sul punto di cadere, trascinato giù dall'angelo del male (ovvero la guerra e il nazismo): però la narrazione è ricomposta in un quadro di grande sapienza drammaturgica, dove ogni personaggio anche minore acquista una sua fisionomia. Nella cornice di una casa immersa nel verde della campagna toscana che trasuda atmosfera umanistica e umano rispetto (e qui vanno menzionati gli eccellenti apporti del direttore di fotografia Franco Di Giacomo e dello scenografo Mario Garbuglia), Penny-Lorenza (la dotatissima Veronica Niccolai) cerca di dare un senso agli eventi secondo la propria logica infantile, ingigantendo le ombre, ricamando fantasticheria sul Duce buono e il diavolo cattivo e trasformando in occasione di gioco le circostanze gravi finché non scoppia la tragedia. Attraverso il suo sguardo si anima un teatro della memoria che i Frazzi tratteggiano con vivido nitore: la sorellina Baby (Lara Campoli, deliziosa), le cameriere (Barbara Enrichi e Gianna Giachetti, assai brave), il parroco (Bruno Vetti), gli amici di famiglia (fra cui spicca Luciano Virgilio) e, soprattutto, lo straordinario zio ebreo e l'amorosa zia che Jeroen Krabbé e Isabella Rossellini incarnano con trepidante sensibilità.
Alessandra Levantesi, La Stampa (27/5/2000)

E' bello ogni tanto ritrovarsi sulla strada maestra del neorealismo, anche se questa gloriosa etichetta per molti seguaci del "trash" è diventata ormai una brutta parola. "Il cielo cade" è un'insolita opera prima, felicemente ispirata e rigorosamente professionale, dei gemelli Andrea e Antonio Frazzi, transfughi dall'ambito del filmati tv. Sullo schermo si sommano ingredienti e suggestioni tipici dell'"école italienne": c'è il sangue e l'orrore di una tragedia vera (la strage della famiglia di Robert Einstein, cugino del grande fisico, massacrata dai nazisti in Toscana il 3 agosto '44) e c'è la sua rielaborazione letteraria (il romanzo autobiografico di Lorenza Mazzetti, Premio Viareggio '62, Sellerio Editore). Il tutto amalgamato in un nitido racconto di coinvolgente impatto emotivo fra echi di Rossellini (considerando anche le presenze di sua figlia Isabella come intensa protagonista) e di Visconti.
Tullio Kezich, Corriere della Sera (27/5/2000)

"Il cielo cade", tratto dal romanzo autobiografico di Lorenza Mazzetti, cofondatrice del "Free Cinema", rilegge gli anni drammatici a cavallo dell'armistizio dell'8 settembre1943 attraverso lo sguardo di una bambina di 8 anni. Adottata con la sorellina dopo la morte dei genitori dalla zia Nina e da suo marito Wilhelm (nella realtà Robert) Einstein, cugino di Albert, Penny è testimone delle ambiguità dell'Italia fascista e degli orrori della guerra, che raggiungono anche la loro villa adagiata tra i colli fiorentini. La narrazione, fluida e calibrata in ogni personaggio, ricordò quella degli originali televisivi di una volta. Forse la regia dei fratelli Frazzi è eccessivamente discreta, ma il personaggio di Wilhelm, intellettuale ebreo dal grande spessore morale, e quello di Penny, sono talmente forti ed intensi da sorreggere da soli il peso di un cielo appesantito da mille orrori.
Fabrizio Liberti, Film TV (6/6/2000)

Ben raccontato, vivace, commovente, forte. Perché diavolo il festival di Cannes non ha invitato Il cielo cade in corcorso? E allora andiamolo almeno a vedere, questo film che esce nella stagione più difficile dell'anno. Premio Viareggio 1967, edito da Sellerio, il piccolo libro di memorie esilaranti e strazianti cui si sono ispirati i fratelli Frazzi sulla base di un progetto lungamente coltivato da Suso Cecchi d'Amico, racconta i giorni quasi felici vissuti da due sorelline rimaste orfane, Penny e Baby, nella bella casa toscana dello zio e della zia - Jeroen Krabbé e Isabella Rosselini, semplicemente bravi e bene assortiti. Attorno c'è la guerra, ma nella villa di Wilhelm Einstein (cugino del più famoso Albert, intellettuale liberale, agnostico, civilissimo) la vita è bella. Le ragazzine (nella più grande, Penny, 8 anni, straordinariamente interpretata da Veronica Nicolai, riconosciamo l'autrice del libro, Lorenza Mazzetti, regista e fondatrice del Free cinema) si divertono un mondo. Imparano che Mussolini non è il dio che pensavano, che c'è posto per il dubbio, che la vita è piena di segreti, come le ragazze che fanno l'amore sui prati, di faticosi piaceri, come la musica insegnata da un bizzarro musicista amico di casa, di gioiose letture, come il loro amato Don Chisciotte. Poi, su questa isola di felicità e di civiltà, il cielo cade, come preannuncia Penny in un sogno che racconta in un tema di scuola. In un crescendo di violenza che la ragazzina guarda per un po' con stupito divertimento, la guerra e il nazismo arrivano a distruggere tutto. Per escludere qualsiasi sospetto di visione "televisiva", se non bastassero la bella fotografia di Franco di Giacomo, le evocative scenografie di Mario Garbuglia, i costumi di Carlo Diappi, i registi movimentano - qualche volta anche troppo - lo stile di ripresa e il ritmo delle scene. Ma questo piglio, associato alla precisione, la finezza di scrittura e di dettagli della sceneggiatura di Suso Cecchi d'Amico, e ai suoi frequenti "non detti", riescono a comporre un importante ritratto di formazione femminile, che ti affeziona molto alla giovane attrice e molto alla donna che è diventata attraverso una così terribile tragedia.
Irene Bignardi, La Repubblica (27/5/2000)

Approccio interessante e inconsueto: raccontare l'orrore del nazismo partendo a una storia privata, come un'onda barbara e maligna che cancella armonie familiari e innocenze infantili. Nonostante una regia che pecca per eccesso di pudore e non va oltre una certa pulizia di stampo televisivo, il film convince, specie nella prima parte più compatta ed ispirata, per l'accurata psicologia dei personaggi e la buona prova degli attori. Se il migliore in campo è l'olandese Krabbé, che regala al suo Wilhem un bel senso aristocratico del dolore, Isabella Rossellini dimostra di aver raggiunto una buona maturità drammatica, e le due bambine, sfatando luoghi comuni sulla difficoltà di dirigere piccoli attori, per intensità e professionismo non hanno nulla da invidiare alle baby star di Hollywood.
Stefano Lusardi, Ciak (1/7/2000)


I gemelli Andrea e Antonio Frazzi, dopo 25 anni di lavoro televisivo, debuttano sul grande schermo per raccontare una micro-storia tratta dal romanzo autobiografico di Lorenza Mazzetti (Premio Viareggio 1967), dedicata ad un doloroso episodio della sua infanzia, di cui sono protagonisti la famiglia Einstein e due bambine rimaste orfane (la più grande è l'alter ego della scrittrice stessa). In particolare emerge la figura dello zio Wilhelm, dietro cui si nasconde Alfred Einstein, cugino del più famoso Albert, morto suicida dopo l'uccisione della moglie e delle figlie per mano dei nazisti, pochi giorni prima della liberazione di Firenze da parte delle truppe inglesi.
Estate 1944 in una bella villa toscana a pochi chilometri da Firenze. Penny e sua sorella Baby, rimaste orfane di madre (morta per malattia) e di padre (vittima di un incidente automobilistico), vengono ospitate presso gli zii, che abitano in campagna. La zia è la sorella della madre ed è sposata con un intellettuale ebreo (Wilhelm), di nazionalità tedesca, amante della musica, idealista e paladino della giustizia. Educate secondo i rituali fascisti, le due bambine si trovano invece a sperimentare nuovi metodi educativi, irriverenti nei confronti delle autorità religiose e fasciste, improntati sul rispetto della dignità umana e sull'amore per la cultura libertaria.

Alcune recensioni hanno esaltato entusiasticamente doti indubitabili degli autori quali: "consumata abilità nel raccontare, senso del ritmo e della misura nel dosare momenti brillanti e drammatici", insomma il solido mestiere dei due gemelli, che tuttavia può diventare limite e usura del genere, se sommato ai trucchetti che da almeno mezzo secolo ci ammannisce Suso Cecchi D'Amico. Un episodio per tutti: l'anello del vescovo, che lo zione sarebbe tenuto a baciare per salvarsi l'anima; un laico, presumibilmente di sinistra e... ebreo che ovviamente nell'occasione della visita si dovrebbe convertire, come in tutti i sogni dei ferventi cattolici ammalati di proselitismo. In quel frangente il gioco della sceneggiatura, a cui tiene bordone la regia attraverso riprese ruffiane montate in modo da alternare l'eccitazione misticheggiante delle ragazzine al civile confronto di opinioni degli adulti (scontata la bonarietà del vescovo, quanto la sollecitudine del parroco nell’avvertimento, quando gli eventi precipiteranno), privilegia il livello della superstizione, che sovrasta quello razionale espresso dalla posizione del parente di Einstein (che preferisce consentire una scelta religiosa consapevole alle ragazze da decidere una volta adulte), perché considera il pubblico alla stregua di quello televisivo, infantile e dunque preda di valutazioni pelosamente emotive. Non è tanto l'intento sbandierato dagli autori di voler filtrare lo sguardo attraverso gli occhi della bambina, a sua volta frutto dei ricordi di se stessa scrittrice, poi setacciati dal neorelismo fatto sceneggiatura, e quindi edulcorati dagli autori televisivi per eccellenza: in questo caso si tratta di considerare ancora e sempre gli spettatori come bambini incapaci di cogliere null'altro che le percezioni più palesi, le emozioni più marchiane, gli episodi che solleticano maggiormente la presunta memoria popolaresca; dunque ben venga un pre-testo che prende spunto dalle percezioni di una bambina, così si legittima la costrizione della percezione ad un mondo infantile. Se si ritiene con questi mezzucci arcaici di attrarre platee giovani per combattere i fascismi in recupero nell'immaginario dilagante, si ottiene l'effetto opposto: riferimenti stantii, situazioni ridotte a macchiette di stereotipi poco credibili, nonostante - e proprio per l'evidente ricerca di duplicazione - Isabella Rossellini ricerchi l’effetto clone dell'icona neorealista che rappresentò sua madre e la cameriera svolga lo stesso ruolo di centinaia di altre Barbara Enrichi del cinema italiano, il quale tenta di darsi un'aria di impegno e si riduce invece a ritratto poco credibile di alta borghesia intenta a ridere dei temi di Penny.
Questi ultimi non sono un aspetto secondario: l'impianto del film viene confermato nel suo spudorato didascalismo proprio dalla fastidiosa citazione di queste prove di ingenua scrittura (il cui risultato finale non dimentichiamo che è il romanzo responsabile della riduzione cinematografica, visto che il premio Viareggio '67 di Lorenza Mazzetti probabilmente altro non è che l'ampliamento di quelle tracce scolastiche), che nell'intento degli autori - Suso Cecchi D'Amico in primis - dovevano scatenare l'ilarità grazie alle fantasie mistiche nutrite di propaganda fascista. In realtà negli ultimi cinquant'anni si è talmente raschiato il barile con le medesime situazioni che anche intuizioni felici come la Madonna pelata, sincresi mistica del priapeo duce mascellone con l'immagine della vergine in una confusione di sacro e profano e riconosciuta come l'idea più originale del film al punto da suggerire il titolo del film, sembra una rimasticatura di successivi palinsesti che nulla aggiungono al tedio di assistere al solito casolare toscano regolato da un gineceo, in cui una piccola scrivana fiorentina si ritrova a ripetere per castigo frasi che censurano il suo comportamento al punto da costringere l'inclito pubblico ad assistere ad una insostenibile messinscena pleonastica di tentato suicidio infantile.
Apprezzabile la scelta di non doppiare le parti in lingua tedesca (che sono semplice conversazione salottiera per lo più), che si intrecciano alla battuta in francese ("Il pleur dans mon coeur comme il pleuve dans la ville"), stigmatizzando le velleità internazionaliste di una condizione di provincialismo.
Il linguaggio adottato fin dall'inizio avverte che le metafore saranno grevi e le proposte di lettura degne di un sussidiario degli anni '60: già i titoli spartiscono la scena con una ripresa circolare dal basso su alberi di un parco, cortocircuito della memoria interrotto dall'auto che conduce la protagonista presso la magione degli zii, elencando come una litania tutti gli indizi utili (l'auto d'epoca, la donna che ne fuoriesce, il codazzo di ragazzine, i corridoi del palazzo, autisti e domestici, fermento: una sequenza di pochi secondi che tradotta dai canoni televisivi sostituisce una didascalia in cui sta scritto: "Primi Anni 40, campagna toscana, famiglia benestante, probabile ferale notizia in arrivo"): una prima tragedia si è consumata e ci viene raccontata con concitazione nelle poche inquadrature che con maestria introducono i personaggi uno per uno, attenti a non sovrapporli, ma anche a non consentire un'analisi più approfondita per nessuno di loro, rimandata a momenti migliori che dovranno venire e invece si ridurranno a una passerella per ogni attore, dimenticandosi di far uscire dalla macchietta tutti gli sventurati che appaiono nel film, compresi gli zii di Penny, ai quali sono consentiti giochi di sguardi, complicità, momenti di nevrastenia (inopinata e sopra le righe, ma la figlia di Rossellini è da Il Prato che ci affligge con la presenza del suo rotacismo sugli schermi, qui spiegato dall’origine straniera del personaggio). Sono però banditi tutti i possibili sviluppi dei personaggi, i gesti autonomi, i guizzi che avrebbero potuto rinnovare o addirittura mettere in forse i canoni del racconto relativo agli ultimi anni del fascismo, consentirne una lettura meno retorica dove certi militari tedeschi non siano per forza gentiluomini, per salvare l’onore della Wermacht lasciando unicamente alle belve naziste delle SS il monopolio della spietatezza, o il partigiano non esca da un agiografia di San Giuseppe con il fazzoletto rosso al collo esplicitata dalla confusione ingenerata dalle menti infantili imbevute di cattolicesimo. E allora anche i tagli scelti non possono che adeguarsi ad un corollario decretato da manuali mai scritti a cui si assoggettarono generazioni di autori, compresa la plongée sul tavolo della prima sera alla villa, dove assistiamo al primo impegno significativo: "Da oggi a tavola parleremo soltanto in una lingua comprensibile a tutti", accettazione di una rivendicazione della bambina, recepita - prima che dallo zio - dalla sceneggiatrice che si diverte a costellare di imbarazzanti luoghi comuni il plot e che impone agli spettatori un transfert legato proprio alla lingua: essi stessi sono posti di fronte a dialoghi in lingua straniera. I bambini in fondo "ci guardano" e insegnano agli adulti spaesati di tutto il cinema neorealista.
Infatti alla sequenza sul desco fan seguito: la maestra e il ridicolo "eia eia alalà!" sulle scale della scuola, non abbastanza stigmatizzato nella sua assurda onomatopea di un'ideologia stracciona e sempre riproposto soltanto come episodio folkloristico; la pletora di calamai e pennini, dettagli impregnati di autoindulgenza nella propria pretesa di essere ancora significativi; il ragazzino più scanzonato (può chiamarsi in modo diverso da Pierino?) che riesce solo a fare costume, come il pianista, che infila due o tre lezioncine da reader's digest su Mozart e Chopin (quest'ultimo contestualizzato per il suo afflato nostalgico di una libertà chimerica, opportunamente ma troppo spudoratamente) e se ne va teatralmente. Non è chiaro invece quale motivazione stilistica imponga a tutte le sequenze significative di iniziare da una visione dal basso con un leggero grandangolo: forse per suggerire il punto di vista di una bambina, o forse per una forma di sudditanza verso gli eventi che travolsero i destini di molte persone, coinvolte dalla guerra e perseguitate dal fascismo; certamente risulta poco realistica l'opzione "rasoterra", soprattutto se viene poi contrappuntata da riprese dall'alto che offrono allo spettatore un punto di vista d'insieme, che risulta falso, perché la condizione di sguardo di bambina sperduta non consente mai di avere davvero un quadro unitario di ciò che avveniva. In quei casi si tratta di immagini che riportano lo spettatore alla sua condizione e alle sue pre-conoscenze che esulano dal contesto del film, finiscono solamente per creare un diaframma tra pubblico e materia trattata.

Degna di menzione è l'inquadratura di Penny catturata dalla cuoca popolana (burbera, uguale allo stesso personaggio nello sceneggiato sul priore di Barbiana) il cui viso è illuminato in modo innaturale mentre in grandangolo è sottoposta alla tortura della pulizia dall'inchiostro, efficace perché è uno dei pochi momenti dove si abbandona il naturalismo realistico per tentare di interpretare lo stato d'animo della ragazzina intrappolata che scalcia e si divincola, soffocata dall'educazione; repressiva comunque: quella littoria e quella di zio Wilhelm, laica ma non meno severa. Si tratta di uno degli sporadici tentativi di rappresentazione indiretta della condizione emotiva, che straborda anche nella descrizione del momento storico, per il resto ripreso in modo neutro, comprensivo delle immancabili note lugubri di Radio Londra, degne della copertina della Domenica del Corriere. Serie di siparietti tratti da repertori di trovarobato di cui non è risparmiato nulla, nemmeno una caduta nel cesso di Baby, la sorellina, che bisognerebbe porre a confronto con i ritmi e i tempi dell'episodio analogo di Gatto nero, gatto bianco per pesare il greve tono televisivo rispetto alla scanzonata dirompenza della comica preparata da Kusturica. Se qualunque trasgressione viene perseguita, va anche detto che l'incapacità di immaginarne di plausibili e ribalde connota l'intero set in cui è immersa la vicenda come un'arcadia dove da decenni attorno al medesimo torrente si svolgono gli stessi misfatti, le identiche prime esperienze: probabilmente perché gli ideatori delle storie sovvenzionate dai produttori sono da cinquant'anni quelli che non possono aver vissuto episodi diversi da quelli che hanno già raccontato svariate volte.
Nel brodo diluito risulta pregevole un piano sequenza: si tratta della soggettiva di Penny nel momento in cui la radio annuncia l'arresto di "Sua Eccellenza Benito Mussolini", repertorio eiar ascoltato ormai una pletora di volte. In quell'ispirato movimento di macchina a mano, concitato e privo di uscite, gli autori riescono a fondere per l'unica volta in tutto il film la Storia con la vicenda personale della piccola orfana: come tutti gli italiani si trovarono confusi dalla notizia, indecisi sul da farsi, privati di un despota che aveva accentrato su di sé tutte le prerogative di comando e non aveva permesso una coscienza individuale, così la ragazzina – che si era presentata nella casa dello zio tutta fiera e tronfia nella sua divisa di giovane italiana – cerca la figura rassicurante dello zio e lo fa zigzagando per l'aia stracolma di persone altrettanto confuse: in fondo l'aveva anche scritto in un componimento: "Io amo Mussolini come lo zio, l'Italia come la zia", un'Italietta fatta di modelli da seguire e cercare nei momenti di confusione. Anche in questo caso come nell'episodio dell'anello, il piano delle emozioni superstiziose e delle credenze popolari, subissa e surclassa l'analisi storica, ma stavolta almeno si ferma alla similitudine suggerita, laddove per tutto il resto del film invece s'insiste a voler imporre la visione dal basso come unica possibile, relegando a quinta scenica le macchiette delle Storia, rifiutando di legittimare con riferimenti più globali i motivi per cui avrebbero dovuto interessarci i guai di Penny.
Tra le battute felici è giusto ritagliare uno spazio a quella pronunciata da Baby che le fa assimilare il soldato inglese (con il solito tatto definisce la situazione: "It's only a farmer funeral") al Sancho Panza del Don Quijote che stava leggendo, nuovo segnale di una crescita dell'approccio con la Storia: non più ritrarsi nell'alveo della superstizione e nemmeno assimilazione dei due piani in una commistione indistinguibile dove il caos individuale rispecchia quello generale, ma elaborazione del racconto e attraverso quella operazione sviluppo di una lettura della storia, quella propria e quella generale.
Purtroppo si tratta di poche luci in mezzo a battute telefonate ("Non gli ha mai fatto vincere una partita" lo pensa lo spettatore meno scafato alcuni secondi prima che venga pronunciata la sottolineatura di una situazione già abbastanza circostanziata da inquadrature che indugiano sui volti dei due leali avversari agli scacchi) e gesti di liberazione plateali come il taglio dei cavi che testimoniavano dell'occupazione tedesca della casa. L'abisso in questo senso si tocca con la corsa del gruppo di sei volti di donna compressi in un piano ravvicinato gioioso sulla speranza dell'arrivo degli inglesi che si smorza sul portone aperto: ovviamente noi leggiamo sui loro volti la delusione e l'arrivo delle SS in una scena che avrebbe potuto essere accettabile soltanto se fosse stata citazione esplicita di una delle innumerevoli sequenze copiate, fatta in questo modo è invece semplice plagio da testi precedenti.
http://www.cinemah.com/neardark/index.php3?idtit=321

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