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lunes, 10 de junio de 2013

Prova d'orchestra - Federico Fellini (1979)


TITULO ORIGINAL Prova d'orchestra
AÑO 1979
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 70 min.
DIRECCION Federico Fellini
GUION Federico Fellini
MUSICA Nino Rota
FOTOGRAFIA Giuseppe Rotunno
REPARTO Francesco Aluigi, Balduin Baas, Ronaldo Bonacchi, Claudio Ciocca, Clara Colosimo
PRODUCTORA RAI / Daimo / Albatros
GENERO Drama | Música. Política. Falso documental

SINOPSIS En una capilla medieval romana, una orquesta se prepara para ensayar. Los acompaña un equipo de Televisión. El director es un alemán que insulta a los músicos y los trata mal. Después de un descanso, éstos se rebelan contra él... (FILMAFFINITY)




All'interno di un antico oratorio si svolgono le prove di un concerto sinfonico. Gli strumentisti arrivano a gruppetti e prendono posto. Ci sono anche, in un angolo, i rappresentanti sindacali. Un giornalista televisivo intervista i musicisti: ognuno parla del suo strumento e delle sue esperienze. All'arrivo del maestro, che si esprime con spiccato accento tedesco, la prova inizia con calma. Poi all'improvviso si interrompe per le proteste degli orchestrali. Il direttore abbandona la sala per il suo camerino dove lo segue il giornalista per intervistarlo. Intanto nell'oratorio è la rivoluzione: tutto viene contestato, dal direttore agli spartiti; l'anarchia e il disordine regnano, con le pareti imbrattate da scritte e simboli di rivolta. D'un tratto l'edificio inizia a tremare, scosso da colpi sempre più forti finché una gigantesca palla di acciaio non sfonda i muri, e nel crollo muore l'arpista. Dopo momenti di confusione e grida di terrore torna il silenzio e la prova riprende. Di nuovo sul podio, il direttore d'orchestra impartisce i suoi ordini, come un dittatore.

Curiosità
“Avevo altri progetti, non era urgente, non sentivo l’urgenza di fare questo. Non corrispondeva a un bisogno. A un certo punto il bisogno l’ho sentito, quando hanno ammazzato Moro. Sì, quando ho saputo che avevano ammazzato Moro. Mi fece un’impressione enorme. Ma non il fatto in sé, io me l’aspettavo. Ma il rifletterci su, per capire il senso profondo di quello che era accaduto e del perché era accaduto. Che cosa avevano voluto fare quelli che l’avevano ammazzato? Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo Paese? Perché eravamo ridotti a questo punto? Tra questo e il film non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto. Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era già finito, anzi quando era già in programmazione. Non è che fin dall’inizio io non annettessi al film i significati che ha, ma non avevo coscienza del perché a un certo punto mi fosse diventato urgente il farlo. Ebbene, poi l’ho saputo: è stato l’assassinio di Moro”.
Franca Faldini, Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984. Raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, Milano, 1984, p. 258

Critiche
Leone Piccioni
Fellini riesce a fondere, in poco più poco meno di 70 minuti di spettacolo, grottesco, nostalgico, verità, profezia, inquietudine ed ansia, in un amalgama davvero insolito senza che un mezzo minuto soltanto del fitto discorso evocativo, rappresentativo o volto alla previsione, vada sprecato o cada inerte. Ha momenti di struggente e drammatica forza poetica, ma non ha bisogno (come altre volte anche a lui poteva accadere) di prepararli con uno scorrere più spento di immagini; non ha nessun desiderio di prolungare in echi e riflessi, anche i più alti risultati raggiunti. Insuperabile nel costruire, all'interno dell'opera, "frammenti" di toccante qualità, Fellini in questo film riesce a discorrere in una inflessibile continuità, sia pur per frammenti!
"Il Tempo", 25 novembre 1978

Mireille Amiel
E' un film sconvolgente. Se ne possono fare differenti letture. Esse sono tutte vere, contemporanee, uguali. Voglio dire che non si può stabilire alcuna gerarchia tra la parabola sull'attuale caos politico italiano (ed il suo posto nell'attuale squilibrio planetario), la riflessione sul ruolo dei mezzi di comunicazione, la meditazione metafisica sulla funzione dell'uomo nella società, la sua necessità, il suo divenire, il suo rapporto con la creazione [...] Ciò di cui certamente Fellini ci parla è della musica. Vale a dire dell'arte, della creazione, del mezzo per andare al di là dell'effimero, della morte, della banalità. Ciò che Fellini ci dice è che la mediocrità è insopportabile. Perché limitare la portata del film alla sua dimensione analizzabile, logica, parabolica, non vuol dir nulla. Prova d'orchestra è un grido straziante, metà appello e metà stigmatizzazione; è in ogni caso, e sotterraneamente, un grido di speranza. Poiché Fellini, malgrado la contraddizione dolorosa e commovente degli ultimi minuti, non ha mai smesso di sperare.
"Cinéma 79", n. 247-248, juillet-août 1979

Tullio Kezich
Come tutto il Fellini televisivo da Block-notes di un regista a I clowns, ha una leggerezza di tocco e una capacità di sintesi ormai difficili da trovare nelle opere maggiori. Nei ritratti degli orchestrali si conferma l'estro dell'antico caricaturista, ma esaltato in una dimensione gogoliana, mentre la figura del direttore è in parte l'occasione di uno sfogo autobiografico, in parte un'autocritica spinta al paradosso (dopo un ispirato discorso di impronta junghiana sulla necessità di suonare bene il proprio strumento, il personaggio spara una serie di ordini in tedesco). Nell'insieme il film, padroneggiato con superiore bravura, è un saggio genialmente contraddittorio: divertente e tristissimo, positivo e disperato, cattivante e stizzoso.
Il Centofilm 2. Un anno di cinema 1978-1979, Il Formichiere, Milano, 1979

Alberto Farassino
A un certo punto, nel momento di massima degradazione (e questo è detto in termini di strutture non di valori estetici: infatti sono probabilmente i momenti migliori del film) interviene il famoso maglio di ferro, preludio all'avvento di un nuovo ordine. Della Rivoluzione, della Restaurazione, della Provvidenza? No, è solo il simbolo di se stesso, il simbolo del simbolico. Nel momento della deriva, quando più nulla è codificato, si afferma l'ipotesi di un ritorno all'ordine del simbolico, ai linguaggi della certezza, alla compattezza, ferrea, dell'opera. Assieme alla grande palla di ferro è il cinema che rientra nella televisione, portandovi i suoi effetti speciali, le sue nuvole di fumo, le sue scenografie da studio, il fantastico, le forti emozioni, tutto ciò che il cinema può fare ma non la TV. E' il cinema "per" la TV, è l'orchestra che ricomincia a suonare.
"La Repubblica", 15 marzo 1979
http://www.federicofellini.it/node/535
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Federico Fellini, el fabulador

Ensayo de orquesta nació para la televisión. Producida por la RAI, cuando aún no se había estrenado fue objeto de una extensa polémica en la prensa italiana de la época. Años después de que La dolce vita diera tanto de que hablar, regresaba el Federico Fellini más polémico y amargo.
En primer lugar, la distribuidora francesa Gaumont y la RAI se enzarzaron en una lucha por los derechos de proyección de la obra en las salas cinematográficas. Según el acuerdo con Fellini, la cinta debía ser distribuida por la Gaumont en los cines para que varios meses más tarde la RAI lo pasase por televisión. El problema surgió cuando la RAI, productora del film, se descolgó con unas pretensiones económicas exageradas. Evidentemente, la RAI tuvo que ceder en sus demandas y Ensayo de orquesta acabó estrenándose a mediados de febrero de 1979.
Y con el estreno llegó el escándalo. La película estuvo precedida, y su estreno aún avivó más el tema, por una serie de declaraciones de políticos, críticos, intelectuales, etc. que tildaban a Ensayo de orquesta de panfleto político. Las interpretaciones sobre el film oscilaban entre los que veían en él un ataque a la democracia y el canto a una sociedad totalitaria, y aquellos otros que observaban en la película una advertencia premonitoria de lo que podía llegar a pasar si se continuaba cediendo al desorden democrático. Los diarios de derecha le dedican gran espacio, el movimiento sindical queda dividido y el Partido Comunista Italiano adopta diversas interpretaciones. Por su parte, Fellini negaba que el film sustentara una explícita alusión a la situación italiana del momento.
Para situarnos mejor en este enredo, deberíamos desentrañar lo que Fellini nos cuenta, describir el argumento de la película. (Si algún lector no ha visto la película, aún está a tiempo de pasar al siguiente párrafo si lo desea). Toda la película transcurre en una antigua iglesia medieval. Su acústica resulta perfecta para que pueda tocar en ella una orquesta. Los músicos de la orquesta van llegando en pequeños grupos mientras un equipo de televisión, al que nunca vemos, los entrevista. Cada músico habla de su instrumento ensalzándolo hasta tal punto que cada uno lo considera como el pilar fundamental de la orquesta. Los comentarios van desde las frases más retóricas y pedantes hasta lo más banal y grosero. Comenzamos a ver las relaciones entre los músicos. De repente, aparece el director, que habla con un fuerte acento alemán. La orquesta empieza a ensayar, pero nadie se llega a entender y poco a poco se llega al desorden más absoluto. El director pide orden, el delegado sindical y algunos de los músicos comienzan a discutir y a pintar slogans. Los músicos más ancianos permanecen al lado de la figura del director mientras la mayoría de la orquesta descansa bebiendo y fumando en un pequeño bar. La situación da pie para que el genio de Fellini campe a sus anchas: multitud de personajes que van y vienen y pequeñas historias absurdas y surrealistas sirven para que el director italiano frustre una y otra vez en ensayo de la orquesta. Se oye un gran ruido y una de las paredes de la iglesia estalla. En el agujero de la pared aparece una gran bola de demolición. El desorden se convierte en caos. La arpista muere y el director convoca al resto de músicos. Tras reanudar el ensayo, el director vuelve a realizar el mismo tipo de reproches, gritando más en alemán.
Resulta evidente el carácter parabólico de Ensayo de orquesta. Otro cantar es el de si las imágenes de la película transmiten nostalgia de la dictadura o apuestan por la contundencia ante el desorden que puede conllevar la democracia. Yo creo que Fellini no establece un discurso político sino que encuentra en la realidad sociopolítica de la época el caldo de cultivo ideal para dar rienda suelta a su microcosmos personal. No se trata de tomar partido sino de escribir una fábula que está abierta a todas las interpretaciones que el espectador aporte. De su realización se desprende que Fellini no toma partido, simplemente expone. El director de Amarcord nos muestra el conflicto social entre clases, nos habla del abuso de poder y de la delgada línea que separa la imposición del orden por la fuerza de la tiranía y el totalitarismo. Los fantasmas de Fellini están bastante alejados de lo terrenal, su espíritu está por encima de disquisiciones políticas. El director italiano mira y deforma la realidad a su gusto para acabar devolviéndonos una realidad carnavalesca.
Otra posible lectura que ofrece Ensayo de orquesta es la de exponer la soledad del director (del creador) en la elaboración de una obra de arte colectiva. Fellini confronta a los músicos-actores con el director. Para que la música suene armoniosamente se hace necesaria la presencia del director, de su punto de vista y de sus órdenes. De esta forma, el ensayo de la orquesta se convierte en un espejo de lo que puede suceder en el set de rodaje. No obstante, y como ya señalaba en el párrafo anterior, no debemos obviar ni olvidar la visión deformante que Fellini imprime a sus historias, ya que en caso contrario podría parecer que es la burla el objetivo del director, punto de vista totalmente erróneo porque supondría un posicionamiento que Ensayo de orquesta no busca ningún momento. En esta segunda lectura que podría ofrecer la película, Federico Fellini se convertiría en cómplice observador de sus personajes, siendo la figura del director de orquesta más paródica que moralista.
La puesta en escena del film es brillante y austera, seguramente propiciada por el bajo presupuesto con el que contaba la película y por los escenarios en los que Fellini está obligado a mover la cámara. Hay que destacar los planos generales de ida y vuelta, de izquierda a derecha y derecha a izquierda, que Fellini nos muestra cuando se desarrolla la música, la cámara sigue los movimientos musicales.
Aquí no nos encontramos con el barroquismo exuberante de Satyricon o de Casanova. Ensayo de orquesta es una obra dura y sobria, como las paredes de la iglesia en el que los músicos ensayan, en el que los trazos del dibujo de los personajes son la baza más compleja que ofrece el director italiano. Es en este aspecto donde la película alcanza aquello que la cinefilia conoce como felliniano.
Por último y para finalizar este artículo, nunca está de más hablar de la aportación de Nino Rota en las películas de Fellini pero en esta se hace más acuciante al ser un film tan eminentemente musical. Compositor de la gran mayoría de la filmografía de Fellini, en Ensayo de orquesta compone una partitura muy sugestiva. El film es, en el fondo, un homenaje de Federico Fellini a Nino Rota, un homenaje al artista (con el que estaba colaborando por última vez) y al amigo.
http://www.miradas.net/0204/estudios/2004/01_ffellini/ensayodeorquesta.html


Ensayo de Orquesta (Prova d'orchestra) es un falso documental dirigido por Federico Fellini en 1979 para la RAI. En él se muestra cómo los integrantes de una orquesta sinfónica viven entre acuerdos y desacuerdos al momento del ensayo.
Una cámara en mano y la voz en off de un periodista fantasma interpelan a cada músico. Unos participan, otros no. Cada uno defiende su instrumento como la propiedad en la que vive. Participan también el exigente Director, el representante del Sindicato y el Copista, que introduce a la película con una frase maravillosa “…eso sí, no podría vivir sin la música”.
Con música de Nino Rota, Fellini intenta hacer una alegoría entre una orquesta y la sociedad en general, con algunas escenas fuertes, por eso los críticos la tildaron de “panfleto político”. Algunos músicos son alegres, otros amargados, jóvenes, viejos, uno que otro chiflado, pero solo en la música logran olvidar sus diferencias por un “bien” en común. El discurso final del Director es una especie de precepto de vida y de amor por la música.
Me interesé en Ensayo de Orquesta después que un periodista la comparara con el trabajo que hace el director argentino-israelí Daniel Barenboim, quien dirige la Orquesta Oeste-Este Diván, integrada por músicos israelíes y palestinos y cuyo objetivo es promover la coexistencia y el diálogo intercultural en el  Medio Oriente.
Después de presenciar un hermoso concierto de Barenboim al aire libre ante unas 40mil personas, vi esta maravillosa película.
En el filme de Fellini, el Director de la Orquesta reclama: “Violines… hacen cada uno lo que le da la gana. ¿O es que no están afiliados a un mismo partido?”
En la prensa nacional, Barenboim ratifica su compromiso con la paz del Medio Oriente: “El fin tiene que ser la paz y la aceptación del otro”.
Dos maestros, en un solo día.
Adriana Morán Sarmiento
http://los-365-dias.blogspot.com.ar/2010/08/barenboim-y-fellini.html
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DITTATORE D'ORCHESTRA

Un filmetto. Così definì Federico Fellini il suo,  Prova d'orchestra del 1979. Ma è un film pieno, felliniano in tutte le sue parti.
Siamo negli Anni di piombo e la metafora del regista è chiara: quando un periodo storico è dominato dalla confusione ci si deve aspettare il peggio, che un direttore d'orchestra possa essere sostituito da un  dittatore d'orchestra. Un film quanto mai attuale.
Sulla storia recente italiana poteva affacciarsi un dittatore d'orchestra? Impossibile saperlo ma l'improvvisa svolta che sembra autorevole sui fatti ancora in corso ha, probabilmente, allontanato un dissonante  concerto autoritario. O questa autorevolezza è solo tiepido autoritarismo? Tutto da vedere. (Un's)

Il film inizia con il vecchio copista che racconta la storia delle tre tombe dei papi e dei sette vescovi che si trova all'interno di un oratorio duecentesco, trasformato in auditorium nel 1700. La stanza vuota, riempita solo dalla voce del copista, inizia a popolarsi di leggii, spartiti, quadri che raffigurano musicisti del passato fra i quali Wolfgang Amadeus Mozart. “Oggi il pubblico non è più così”, afferma il vecchio copista (dopo aver annunciato il ritiro per sopraggiunti limiti d'età) mentre sistema i fogli per l'arrivo dell'orchestra. Ed ecco che sbuca la televisione, ancora parzialmente discreta, nel riprendere documentaristicamente la seduta di prove. Il regista (la voce è dello stesso Fellini) inizia ad interrogare tutti gli elementi dell'orchestra ad uno ad uno. I musicisti scherzano, ridono, si fanno beffe a vicenda, ascoltano la partita di calcio in radio nell'attesa di iniziare a suonare. Raccontano della assoluta necessità dei propri strumenti all'interno dell'orchestra, come a convincersi che ciascuno di loro sia lì per fare la differenza. Qualcuno, invece, si rifiuta di rispondere alle domande della troupe televisiva, forse troppo invadente, forse poco generosa nel retribuire gli sforzi altrui. Infatti, una piccola sommossa sembra fare capolino quando si scopre che l'intervista è totalmente gratuita, e la presenza dei sindacati in sala non fa che accrescere il nervosismo fra gli astanti. I racconti continuano a susseguirsi uno alla volta, i personaggi felliniani sono come al solito delineati alla perfezione. L'anziano clarinettista racconta delle sue performance davanti ad Arturo Toscanini, mentre gli altri lo canzonano colpendo la sua vanità. I trombettisti dialogano tra loro, una violinista si nasconde mentre beve un goccetto di Wiskey rimproverata dai suoi compagni. Ma ecco che arriva il direttore d'orchestra: biondo, con un forte accento tedesco, inizia a bacchettare i musicisti invitandoli subito all'ordine. Le prime prove non vanno, le note stonate che provengono dalla sala fanno notare il poco affiatamento presente, mentre il terribile direttore comincia a spazientirsi e a rimpiangere l'ordine del passato. Dopo una lunga pausa (in cui il direttore viene intervistato nel suo camerino privato dalla televisione), l'atmosfera che si respira in sala, colta da un improvviso black out, non è più recuperabile. La rivoluzione è ormai compiuta al ritmo di slogan populisti e sessantottini: “La musica al potere, no al potere della musica!”. Il direttore è ormai sconfitto, deriso, messo alla gogna dai suoi musicisti. I muri sono pieni di scritte, l'anarchia è totale. Qualcuno spara (come da regolare porto d'armi), qualcun altro fa finta di niente e continua ad ascoltare la radio (come lo Zio in Amarcord che continua a mangiare nonostante la confusione). Ma quando la situazione è ormai degenerata e i musicisti si ritrovano oramai gli uni contro gli altri, ecco che con fare paternalistico torna in scena il direttore d'orchestra, pronto a ristabilire la pace nella sala e ricominciare a suonare. Tutto sembra andare per il meglio, l'armonia e la musica tornano a percorrere il proprio corso. Ma la scena finale, carica d'inquietudine e di presagi vecchi e nuovi, ci lascia con una devastante invettiva dello stesso maestro. Deluso ancora una volta dai “suoi” protetti, tra la polvere e i cumuli di macerie, inizia a blaterare: prima in italiano poi in tedesco, con foga sempre maggiore. La musica può salvare la vita, ma non il destino dell'umanità.
http://www.uncommons.it/philosofilm/dittatore-d-orchestra-249
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La musica come profezia

In un’intervista rilasciata dopo Prova d’orchestra Fellini disse che poteva vivere senza musica. Chissà quanta verità c’è in questa frase. O quanta inconsapevole bugia. Poteva, ma non rinuncerà alla musica in nessuno dei suoi film; poteva, eppure il suo sodalizio con Nino Rota è forse la collaborazione tra un regista e un compositore più famosa e “alta” del cinema italiano.
La musica non gli era indispensabile. Vero, perché Fellini è il regista della percezione, dell’occhio precipitato nel mondo ma con il proprio spirito, e quindi con la propria memoria o i propri sogni, le proprie idiosincrasie e le proprie metafore. Un occhio – se non forse “l’occhio” del Novecento – di cui è figlio e protagonista, disperso tra psicoanalisi, avanguardie, caricature, circo, la condizione paradossale di “poeta vate” dell’italianità e dell’esistenzialismo ma attraverso l’onirico e non con la politica o la militanza. Regista degli occhi innanzitutto e della rielaborazione presente del ricordo. La musica non gli era indispensabile. Falso, perché Fellini non potrebbe mai non narrare, e non potrebbe mai non narrare senza sporgere molto di più che gli occhi, ma spingendo la mani, il cattivo gusto, la poesia, le confessioni e le orecchie nella direzione del mondo. Pertanto un modo così espanso di fare cinema, e così espanso nell’intimo, doveva usare ogni cosa per tracciare il suo film e per tracciarsi, compresa la musica. E allora riuscite a immaginare i film di Fellini senza musica?
Forse è giusto interpretare il cinema di Fellini molto più sinteticamente: il suo cinema è, infine, semplicemente una costante evasione, una fuga ripetuta, e non per forza a priori fantastica, ma è un’evasione che ricrea il reale e l’uomo che vive in questo reale; e chi è quest’uomo se non Fellini che racconta sé stesso, o una proiezione di Fellini, o una sua creatura, o una sua allegoria per descrivere e profetizzare l’andamento della realtà e dell’uomo che ci è immerso. E la musica era per lui uno dei colori con cui celebrare, innescare o semplicemente far credere quest’evasione.
O era un pretesto per crearla, così può nascere Prova d’orchestra. Prova d’orchestra è uno dei prodigi di Fellini più dimenticati, un film di genio e di profezia che concepisce la musica come l’ultima Babele perduta: il linguaggio astratto per eccellenza, universale per eccellenza quanto non lo sarà mai la parola divisa in migliaia di idiomi, si frantuma per colpa dei suonatori/uomini. Fellini simula di girare un documentario su un oratorio duecentesco dove passarono i più grandi direttori d’orchestra, ma la forma dell’intervista diventa il pretesto per registrare l’ibridazione dell’orchestra che sta provando e del suo direttore d’orchestra. Ogni orchestrale è un ritratto condensato in una o poche scene, in cui Fellini concede a ciascun musicista il feticismo per il proprio strumento e subito dopo disegna le perversioni di un uomo/donna che lo suona, le sue nevrosi e le sue debolezze. Niente a che vedere con i documentari, niente agiografia o messa in posa, nessun privilegio a chi è intervistato se non quello della confessione o dell’esibizione umanissima del ridicolo, compreso lo scompiglio per la presenza della tv perché queste interviste sono gratuite e non autorizzate dal sindacato, ma infine ognuno diventa esibizionista. Fellini si sposta su questi sconosciuti, e nel caos dominante tra i membri dell’umanità/società/orchestra la metafora e il film crescono sempre più. Potenzialmente un filmtv italiano del 1979 si sarebbe concluso a questo punto, superando il confine canonico documentario-fiction e interpretando anche la realtà musicale come caos. Per Fellini però la metafora diventa un paradiso perduto molto più grandioso, irrecuperabile. Ed è stupefacente pensare al risultato finito: in meno di settanta minuti, un piccolo documentario pensato per la tv diventa prima una cronaca surreale, poi sconfina nel politico, nel sociale, nell’apocalittico e in un film sull’arte. Nessuno, neanche Orson Welles, sarebbe arrivato a ripensare con tanta intuizione un’idea metaforica, a riformulare ciò che è nato per essere nelle dimensioni un quadrettino decorativo e permearci dentro ciò che soltanto un’immensa parete o un soffitto può raffigurare. Il piccolo quadretto resta un quadretto apparentemente, ma racchiude un apologo che è un capolavoro.
Entra in scena il direttore d’orchestra e così il film sposta il suo baricentro: l’orchestra è solo uno dei fuochi, perché il centro del film verte sul rapporto perduto tra la musica, il direttore e la sua orchestra. I problemi sindacali degli orchestrali messi in moto anche dalla tv e la lotta di classe contro il dispotismo del direttore scatenano una rivolta devastante che violerà la sacralità di quel tempio dedicato alla musica. La musica come metafora di ciò che poteva essere la rivoluzione, ma filmata da un regista che non amava fare del cinema politico. La sua idea di cinema politico è meravigliosa perché è non monoliticamente ideologica, ma cinema che si espande in ciascuna delle parti in causa e poi le trascende, per passare dal politico al sociale, dal sociale alla metafisica. Fellini infatti non può fare a meno di riconoscersi nel direttore d’orchestra, di paragonare la direzione dell’orchestra alla direzione di un film, così sembrano uscire dalla sua bocca queste frasi pronunciate dal direttore tedesco: “la musica è parte di mondo? Ma il mondo non esiste più, per cui musica non esiste più”; “adesso epoca decaduta, finita, non ha più senso oggi il direttore d’orchestra. Direttore d’orchestra è come prete in chiesa, ma se non c’è chiesa..” mentre prima “la musica era come messa, come rito” perché era “il silenzio, il far nascere voce dal silenzio e poi tornare al silenzio”; “oggi tra direttore e orchestrali c’è dubbio e rancore perciò che è perduto, uniti in odio come una distrutta famiglia. Prima c’era amore tra direttore e orchestrali”. Per questo Fellini fu criticato di dispotismo politico-sociale in una stagione del cinema che credeva prima nella politica e poi nell’arte. Ma l’arte, il cinema possono essere democratici? Un regista sfrutta coloro che lavorano con lui per raggiungere il sublime, che poi diverrà il sublime per chi lo guarderà. C’è una contraddizione politica nell’arte, un inevitabile autoritarismo che Fellini registra appunto come necessario ma non idilliaco: la sua sembra una dichiarazione sul DNA dell’arte, che un’artista deve accettare, accettando così anche la negatività della sua posizione, l’emarginazione tra gli uomini.
Il film sulla musica trasformato in film politico e sull’arte poi esplode in una tensione impensabile: un rumore che fin dall’inizio disorientava saltuariamente gli intervistati ferma la rivolta, non prima che la violenza sia degenerata in anarchia e in crisi d’identità perché gli orchestrali senza direttore cercano una libertà che non sanno gestire. E allora una palla d’acciaio ammutolisce tutti: chi è stato? Dio? O più probabilmente l’uomo di oggi che vive nel traffico (come annunciano i suoni del prologo), e con la sua ambizione di costruire distrugge anche i luoghi della musica e i luoghi del sacro? I musicisti restano attoniti, il direttore riprende la bacchetta, e sulle macerie dell’oggi, del futuro, del caos finalmente esploso, si suona perché non si può fare altro. Inquietantemente. L’orchestra/popolo obbedisce, il direttore/regista riprende il controllo, ma per creare cosa ora?
La profezia finisce, ma Fellini ebbe la maledizione di essere considerato sempre un presunto narcisista, un Apollo dell’arte: parlare di sé conduce a non essere ascoltati come lungimiranti nemmeno quando si inscenano vaticini che da soli valgono l’intera identità italiana di un decennio.
MATTEO QUADRINI
http://mediacritica.it/2011/12/04/prova-d%E2%80%99orchestra/

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