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domingo, 25 de agosto de 2013

La classe operaia va in paradiso - Elio Petri (1971)


TITULO ORIGINAL La classe operaia va in paradiso
AÑO 1971
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 125 min.
DIRECCION Elio Petri
GUION Elio Petri, Ugo Pirro
MUSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFIA Luigi Kuveiller
REPARTO Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Gino Pernice, Salvo Randone
PREMIOS
1972: Cannes: Palma de Oro
1971: Premios David di Donatello: Mejor película (ex-aequo)
PRODUCTORA Euro International Film (EIA)
GENERO Drama | Drama social. Trabajo/empleo

SINOPSIS Denuncia de las condiciones laborales en las fábricas a través de la historia de un obrero modelo que, a raíz de un accidente, se hace sindicalista. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
Subtítulos (Español)


Lulù Massa è un vero e proprio stakanovista, un cottimista che – inviso ai suoi colleghi e amato dai padroni – riesce a sbarcare il lunario piuttosto degnamente permettendosi il lusso di sfamare due famiglie (dato che mantiene sia la ex moglie che la nuova compagna). I suoi ritmi di lavoro sono infernali. Lulù è bravo di braccia, di mente e di lingua. Naturalmente costituisce il modello di operaio che il padrone vorrebbe avere in fabbrica, mentre per i suoi colleghi è solo un ruffiano. La situazione degenera sempre di più perché Lulù viene considerato come un modello di riferimento rispetto al quale valutare gli altri, compresi i nuovi assunti.
La sua vita privata è in crisi: convive con Lidia (Mariangela Melato) e il figlio di lei. Lidia cerca l’indipendenza lavorando sodo presso una parruccheria ed ha molti sogni in testa. Il figlioletto è spesso neutrale nelle dispute tra i due, anche se nutre un certo rispetto nei confronti di Lulù. Quest’ultimo deve però anche mantenere la seconda famiglia, cioè la sua vera moglie ed il suo vero figlio che ormai quasi non lo riconosce più come padre. Il successo sul lavoro gli garantisce la stima delle operaie, in particolare quella del più bel culo della fabbrica (Adalgisa, impersonata da Mietta Albertini). Non a caso Lulù, per concentrarsi meglio durante la produzione, pensa al culo di Adalgisa (una sorta di training autogeno che lui spiega con lo slogan: “UN CULO, UN PEZZO!”).
Tutto va come deve andare. Fino a quando anche Lulù subisce un grave incidente sul lavoro. Forse per distrazione, forse per stanchezza, forse per eccessiva confidenza con la macchina… fatto sta che ci lascia un dito. Tutto si ferma ed i compagni colgono l’occasione per fare assemblea ed indire uno sciopero.
Il povero Massa, a questo punto, comincia ad avere dei dubbi: da operaio preferito dal padrone diventa un contestatore totale. Proprio per questo prende la parola durante una assemblea e spiega il suo percorso personale di rinnegato stakanovista. Fa autocritica, ammette di non averci mai capito niente e si schiera senza incertezze dalla parte dei compagni.
In realtà, all’entrata della fabbrica (e poi pure dentro), si fronteggiano due schieramenti: quello del sindacato “tradizionale”, che crede nella trattativa col padrone e quello degli studenti (sognatori e un po’ astratti che invece predicano la rivolta totale). I primi cominciano ad essere in difficoltà e molti operai si schierano a favore delle tesi sostenute dagli studenti, chiedendo quindi una maggiore incisività nella lotta.
Lo stesso Lulù pensa di abbandonare le posizioni “moderate” del sindacato per avvicinarsi alle rivendicazioni studentesche ma, dopo una rivolta nella quale viene chiamata la polizia e nella quale si arriva a dare fuoco alla macchina del padrone, Lulù riceve una lettera di licenziamento.
Ovviamente il licenziamento si ripercuote sulla sua vita privata: perde sia Lidia che il figlio mentre di certo – disoccupato e senza soldi – non possono che peggiorare anche i rapporti con la sua (ex) moglie e col suo vero figlio (il quale sembra considerare il padre nient’altro che come un povero diavolo).
Lulù entra quindi in una fase di grave crisi: senza lavoro e con un handicap che rischia di penalizzarlo per tutta la vita chiede aiuto a quegli studenti rispetto ai quali si era avvicinato ma si sente rispondere che il suo è un caso “personale”, uno dei tanti, e che loro sono interessati solo ad una dimensione collettiva, di massa.
A questo punto, Lulù, va a fare visita a Militina (Salvo Randone), un ex operaio che è uscito fuori di testa e che non a caso si ritrova internato in un manicomio. Militina gli illustra le categorie rappresentate all’interno dell’istituto psichiatrico: si tratta soprattutto di operai, postini, manovali, qualche diplomato. Ma per la gran parte sono persone di bassa estrazione sociale. Esistono anche i manicomi per ricchi, avverte Militina, ma quelli sono ben isolati perché i ricchi non vogliono far sapere in giro che pure loro possono andare fuori di testa. L’origine di tutto, dice Militina, sono i soldi: i poveracci impazziscono perché ne hanno pochi e ne vorrebbero avere di più, i ricchi impazziscono perché ne hanno troppi. E comunque, conclude l’ex operaio, a lui lo ha fatto impazzire la fabbrica. Il non sapere che cazzo si producesse lì dentro (cosa che non ha mai capito nemmeno Lulù). E questo è già una base sufficiente per cominciare ad impazzire, perché un uomo ha diritto di sapere a che serve il suo lavoro. E infatti giorno dopo giorno, lì in mezzo, la mente se ne va via…
Questo film di Elio Petri (1971) è probabilmente uno dei primi in Italia che sceglie di affrontare il mondo della fabbrica con piglio ironico, sarcastico, e proprio per questo non privo di acume. Petri ha sempre fatto un cinema popolare ad alto contenuto sociale, dato che riteneva che parlare esclusivamente agli intellettuali fosse come non parlare a nessuno. Il cinema doveva essere per le masse: non certo per rincoglionirle quanto per far capire taluni aspetti, equilibri, della società moderna: la corruzione del potere, la forza delle tradizioni mafiose, la realtà della fabbrica. Ed è ovvio come un film del genere non potesse essere amato dagli intellettuali (di sinistra) del tempo che difatti lo accolsero con grande freddezza, arrivando in qualche caso perfino ad accusare Petri di essere un fascista cammuffato da comunista.
In realtà Petri capisce meglio di qualunque altro le dinamiche di fabbrica che si stavano sviluppando: prima di tutto una sempre più evidente distinzione tra “moderati” (ovvero i sindacalisti che trattano col padrone al fine di regolare ma non annullare il cottimo) ed “estremisti” (gli studenti che invece predicano lo scontro frontale col padrone). Considerando che parliamo del 1971 si può certamente dire che Petri avesse ben capito come si sarebbe evoluta la storia operaia degli anni successivi, col tentativo sempre più evidente di alcune fazioni di disarticolare la normale rappresentanza sindacale (fazioni poi rivelatesi contigue se non addirittura parti integranti del fenomeno della lotta armata). In secondo luogo è ben presente la sopraordinazione della macchina sull’uomo: in questo film è la macchina a possedere l’uomo, a schiacciarlo, a conformarlo ai propri ritmi produttivi. E’ la componente tecnica ad avere la meglio e ad avviare la selezione del personale. Il Militina è scoppiato ed è finito in manicomio, Lulù rischia di fare la stessa fine e i sintomi della follia (descritti dallo stesso vecchio ex operaio) sono gli stessi che comincia a manifestare lo stesso Lulù a soli 31 anni.
Emerge inoltre la contrapposizione tra quest’ultimo e la sua convivente (ieri si sarebbe definita “amante”) che non sopporta i comunisti, il loro dogmatismo. Lidia ritiene che lavorando seriamente e duramente si sia legittimati ad aspirare a qualche comodità piccolo-borghese. Nel suo caso la pelliccia. Lidia è un po’ posticcia, frivola. E’ la tipica donna anni 70 che legge fotoromanzi e rotocalchi ma è anche capace di lavorare duramente per perseguire un suo sogno di realizzazione e indipendenza. E’in un certo senso più femminista delle femministe, pur votando democrazia cristiana. E non sopporta di vedere come si sia ridotto Lulù dopo l’infortunio, non sopporta la gente di cui si è circondato (gli studenti estremisti). E infatti non ci mette tanto ad abbandonarlo.

Película con evidente contenido político, dirigida por Elio Petri y protagonizada por Gian María Volonte', director y actor que ya coincidieron un año antes de ésta en otro film de largo título; "Investigación sobre un ciudadano libre de toda sospecha", Oscar de Hollywood a la mejor película extranjera a comienzos de los setenta. Ambas triunfaron en el Festival de Cannes de aquellos años, lo que dá una idea de la repercusión que tuvieron sendos títulos. A mí, particularmente, las dos me gustan, pero ésta la considero más "cercana", pues habla de los peligros del trabajo cuando éste se convierte en una obsesión, además de en algo terriblemente mecánico.
Volonte' interpreta aquí a un currante que decide trabajar a destajo, y no en sentido figurado, sino real, es decir, cuatro ó cinco veces más rápido que otros y sin moverse del sitio en horas, siempre frente a una máquina. Un ejemplo para muchos, una pesadilla para otros. El hombre está cada día que pasa más alejado de la realidad y más obsesionado con su trabajo, pero un día pierde un dedo en un accidente con la dichosa máquina, y pasa a convertirse en un emblema para los sindicalistas, aquellos que discrepaban y mucho de su actitud inicial como currante a destajo, y al que ahora quieren vender como un ejemplo de los peligros de trabajar de ese modo, hasta el punto de poner en peligro su salud, su físico. El mismo personaje de Volonté se plantea seriamente ponerse del lado de los sindicalistas, llegando a ofrecerles su casa, y, en un momento dado, éstos se van de la misma, aunque también su mujer, harta de tanta tensión, llevándose también a su hijo. La clave de la película está en un par de visitas que éste hombre hace a un viejo amigo, ex-currante a destajo como él en la misma fábrica, y que pasa sus últimos años en un manicomio. La primera vez, su amigo le avisa de los peligros de llevar algo al extremo... la segunda, dá la sensación que el protagonista acabará igual que dicho amigo. Puede deducirse que "el paraíso" del que habla el título es el manicomio, la locura, al igual que en su anterior película, el "ciudadano libre de toda sospecha" del título, es un policía que mata y vá dejando pruebas, a propósito, para demostrar que cuando es un representante de la ley quien incumple ó viola esa ley, ó no se le juzga igual que a los comunes mortales, o, directamente, no se le juzga. Kafkiano.
Mi nota para ésta película es un 8, pero Volonte' está de diez. Notable alto en cualquier caso.
Daniel Andrés 


COSA MI E' PIACIUTO: Gian Maria Volonté era un genio. Ho sentito dire recentemente che lui preparava ogni film con molto anticipo, studiandosi il copione, e trascrivendo le battute su un quaderno, per poi copiarle su un altro quaderno con l'aggiunta dell'indicazione dei tempi di recitazione, e poi su un altro ancora per stabilire le intonazioni, per decidere come bilanciare le frasi. Un po' come il lavoro del musicista alle prese con una partitura. E il risultato di questo lavoro è strepitoso. Molto brava però anche la Melato. Entrambi sfoggiano la loro milanesità esibendo un dialetto impeccabile. Morricone è l'autore delle musiche: in alcune scene è abilissimo nel fondere il commento musicale ai rumori ambientali, ora quelli della fabbrica, ora quelli del manicomio (l'accostamento fra le due situazioni non è affatto casuale), e mi è venuto in mente di quando disse che la musica per il cinema gli dà il pane, ma quella che gli dà le soddisfazioni che l'artista cerca è la musica che scrive per sé, e che quasi nessuno conosce. Petri ci sa fare con i temi politici e sociali, e la sua è una regia molto fantasiosa, in suggestivo contrasto con la concretezza degli argomenti trattati dai suoi film. Questo film è tutto urlato, allo scopo, mi sembra, di trasmettere allo spettatore l'inquietudine e il disagio che la rumorosità di una fabbrica comporta. Il figlio dell'amante chiede a Lulù: "Ma te gridi sempre?" E lui non gli risponde neanche, perché non se ne accorge, di parlare costantemente ad alta voce. Indimenticabile il modo di dire di Volonté: "Ragiona", che col passare del tempo diventa quasi un tic, del tutto svincolato dal contesto, segno - paradossalmente - dell'appropinquarsi della follia.

COSA NON MI HA CONVINTO: il tono costantemente sovreccitato del racconto a un certo punto diventa snervante, quasi che si volesse indurre lo spettatore ad accompagnare il personaggio lungo il suo cammino tribolato. Sotto questo aspetto, è un film molto faticoso. Il finale, poi, mi ha lasciato un po' perplesso, per la soluzione stilistica adottata. Petri (che ha scritto la sceneggiatura assieme a Ugo Pirro) evidentemente amava i finali aperti.

El Destajo
Muy valorada en su momento, como así lo prueban los importantes premios obtenidos, esta película de Petri es paradigmática dentro del cine político y denuciatorio, que experimentó una auténtica eclosión en Italia a partir de los años 60. El objetivo que persigue el filme es criticar la condición de la clase obrera mostrando la alienación de un trabajador que, siendo en principio modélico (va a lo suyo y es un ejemplo de productividad), acaba convirtiéndose en un subversivo (tras sufrir un accidente laboral), toma de conciencia a la que se apareja el deterioro de su vida familiar, e incluso de su salud mental.
Vista hoy, es imposible negar que la cinta ha envejecido, tanto en la forma como en el fondo, circunstancia que no impide que el argumento sea interesante y que aún tenga vínculos con el tiempo presente. El retrato que se hace del trabajo fabril, marcado por el imperio de la productividad y la vigilancia de los supervisores, se asemeja a lo que ya Chaplin propusiera en su estupenda "Tiempos Modernos" (perspectiva que había tomado de la anterior y excelente "Viva la Libertad" de René Clair), aunque despojándolo de humor y acentuando sus aspectos más desagradables y deshumanizadores. Lo cierto es que es una película crispada, en la que los personajes discuten y gritan constantemente, dejando poco margen para la reflexión, y en la que se retrata la división existente entre los obreros, al tiempo que contrapone las formas de lucha de los sindicatos y de los estudiantes de extrema izquierda revolucionaria, sin que ninguno salga especialmente bien parado (a los sindicatos se les acusa de reformistas y a los estudiantes de utópicos revolucionarios "que se lo pueden permitir"). En medio de este caos el protagonista parece condenado a la confusión y la desesperación, que lo llevan hasta la locura, por lo que el mensaje de la historia resulta claramente pesimista.
La película es crispada en todos sus aspectos; desde las interpretaciones, con un excesivo Volonté a la cabeza, pasando por los movimientos de cámara (con frecuencia nerviosos, enfatizando la incertidumbre de las situaciones mostradas, que a veces rozan la violencia), y culminando en la música, a cargo de Morricone. El guión resulta desigual, perdiendo efectividad en los momentos más surrealistas del filme, como los fragmentos de humor absurdo y algunas alusiones ideológicas, que se plantean de forma un tanto confusa.
Por todo ello un filme interesante, y que hoy, "cautiva y desarmada" la clase obrera europea, parece hablarnos desde un pasado remoto, cuando "apenas" han pasado cuarenta años desde su realización.
Quatermain80

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